17 gennaio 2011

VIVA L'ITALIA TUTTA INTERA: i 150 appuntamenti.






VIVA L'ITALIA TUTTA INTERA. 150 eventi per 150 anni D'Unità.


Conferenza stampa di presentazione di "Viva l'Italia. Tutta Intera" le 150 iniziative del PD per l'importante celebrazione dell'anniversario dell'Unità d'Italia.
Pier Luigi Bersani:“Chi altro potrebbe presentare un progetto del genere? Quale partito italiano? Solo noi. Una volta di più dimostriamo di essere un partito nazionale, fondamentale per la riscossa del Paese”.

Estratto video della conferenza:

La nota del mattino del 17/01/'11

Le principali notizie politiche a cura dell'Ufficio Circoli nazionale del PD.
1. BERLUSCONI DILAGA IN TV CON LA COMMEDIA DEL NONNO BUONO. LA MAGGIORANZA VA IN TILT SU RUBY E COMPAGNE. E INTANTO I PROBLEMI DEGLI ITALIANI RESTANO AL PALO.
Questa mattina il presidente della giunta parlamentare per le autorizzazioni a procedere, Pierluigi Castagnetti, rimuoverà i sigilli dal plico che ha inviato a Roma la procura della Repubblica di Milano sul caso Ruby-Berlusconi: centinaia di pagine con telefonate, prove, dati e testimonianze. Castagnetti e i suoi vice, Giuseppe Consolo di Fli e Domenico Zinzi dell`Udc, decideranno quando gli allegati potranno essere esibiti in una sala controllata dove poi i commissari della giunta potranno consultarli. Ma non fotocopiarli. Perché si tratta pur sempre di atti giudiziari di un`inchiesta ancora in corso, appena notificati alla difesa degli indagati. Nonostante tutte le cautele è chiaro che il contenuto degli atti verrà a conoscenza dell’opinione pubblica. E questo semplice fatto sta facendo tremare i polsi alla maggioranza, alle prese in questi giorni con la ricerca di nuovi adepti, ed ha spinto il presidente Silvio Berlusconi a fare una mossa d’anticipo, dilagando in tv con una dichiarazione di innocenza e con la pseudo rivelazione di essere fidanzato. Ugo Magri, giornalista che ben conosce il mondo berlusconiano, descrive così su La Stampa cosa stia accadendo, anche al di là del tentativo di non presentarsi davanti ai giudici nonostante le assicurazioni del primo momento: “Il mondo berlusconiano è in preda al panico. Pochi sanno che cosa c`è davvero nelle 400 pagine inviate dai magistrati alla Camera, ma chi vi ha dato uno sguardo non trova parole per raccontare. Lo stesso premier ha trascorso l`altra notte sfogliando le carte e ne è rimasto «profondamente sconvolto». Per il linguaggio crudo, da fare arrossire qualche scaricatore di porto, con cui le ragazze intercettate descrivono i festini di Arcore. E per i giudizi spietati, gonfi di sprezzo, che mandano in briciole il suo ego, che trasformano il Cavaliere umanamente in un mostro. A questo punto l`aspetto penale verrà dopo. Non per nulla gli avvocati Longo e Ghedini nemmeno sanno dire così, su due piedi, se il loro cliente dovrà appellarsi a qualche cavillo legale per schivare le domande della più terribile tra le inquisitrici, Ilda Boccassini. Prima della difesa legale, per Berlusconi viene quella urgente, urlata, disperata, della propria dignità di politico, di imprenditore, di padre e di nonno. Da domani sapremo quali orrendi segreti stanno nel plico su cui, ironia del destino, metterà la sua firma Fini da presidente della Camera. Ma soprattutto misureremo le reazioni collettive di indifferenza o di sdegno, e dunque le chances del Cavaliere di sopravvivere come in altri frangenti gli era miracolosamente riuscito. Una parte dei suoi ci crede ancora. Da Micciché alla Gelmini, da Bondi a Sacconi, da Cicchitto a Frattini, tutti si dichiarano pronti a immolarsi nell`ultima resistenza. Lo seguirebbero perfino all`inferno. Eppure, proprio nella guardia scelta berlusconiana si diffonde la sensazione di una battaglia inutile, senza speranza, senza la minima prospettiva strategica. Perché nessuno crede seriamente che basteranno trovate mediatiche come quella di ieri, l`annuncio nel videomessaggio dell`anima gemella, per arginare una marea di fango. In altri momenti sarebbe stato tutto un darsi di gomito, «hai visto Silvio che grande genio della comunicazione? Ha già fatto passare in secondo piano l`inchiesta»; ora invece solo sorrisi a denti stretti, e dubbi («cosa dici, funzionerà?») oppure sarcasmi velati («ma questa donna esiste davvero?»). Tra i collaboratori più intimi del premier non ce n`è uno, uno soltanto, che possa dire: io la conosco, ne ero al corrente. Se Berlusconi voleva tenere il nome della fortunata al
riparo della curiosità (e dei pm), c`è riuscito fin troppo bene. Ma forse l`annuncio è solo un modo per far sapere al mondo: «Ho messo la testa a posto. Tutto quello che leggerete nei prossimi giorni è acqua passata, appartiene al vecchio Silvio che non c`è più, morto e sepolto». E` la prima linea difensiva. La seconda barricata del premier consiste nel negare in via preventiva, nel contestare ancora prima che diventino pubblici i racconti boccacceschi delle ragazze, nel presentarli come vanterie, fanfaluche, bugie da comari, del resto tante se ne dicono al telefono quando mai si penserebbe di venire ascoltati. La terza trincea del premier sta nell`orgogliosa rivendicazione della sua privacy. A chiunque lo chiami, ripete come un vecchio 33 giri in vinile: «In casa mia io ho il sacrosanto diritto di fare quello che credo, guai se si entra nelle camere da letto, se mi va di fare regali li faccio, nessuno può obbligarmi a perquisire le mie ospiti perché non scattino foto». Nel passaggio più scabroso della sua quasi ventennale, carriera, Berlusconi sfodera perfino con gli amici la solita sfrontata sicurezza. Sostiene che l`indagine su Ruby «fa acqua da tutte le parti, manca la prova per incastrarmi». Salvo precipitare poi nel patetico quando sempre in privato confida: «Solo un uomo terribilmente solo, tutto questo succede perché vivo in questa condizione da cinque anni, ogni tanto anch`io sento il bisogno di una festa, desidero vedere gente... Invitavo quelle ragazze per scambiare un rapporto di affetto, con loro sono stato sempre paterno, a una ho fatto imparare l`inglese, un`altra l`ho fatta assumere a Mediaset...». Mai che abbia pronunciato, finora, la parola fatale: dimissioni. Eppure chi gli circola intorno giura che sta bene al centro dei suoi pensieri. Aleggia come uno spettro nella villa di Arcore. Qualcuno comincia a parlarne, sottovoce si capisce. Fa testo il giudizio di un ministro tra i massimi, che naturalmente non vuole essere nominato: «Il danno internazionale è insopportabile. Fosse Berlusconi accusato di violazione dell`articolo 2550 del codice civile, all`estero direbbero che è una storia italiana. Ma in questo caso si parla un linguaggio universale, sesso con una prostituta minorenne, lo capiscono anche in Cina. Tentare difese tecniche o andare in tivù è semplicemente ridicolo». Perfino tra i colonnelli più fedeli si va spargendo il dubbio: non sarebbe preferibile un passo indietro ora, subito, prima che tutto precipiti? L`argomento ha una sua forza seduttiva. Rinunciando a Palazzo Chigi, Berlusconi potrebbe contestualmente indicare un successore, quantomeno condizionare pesantemente la scelta di Napolitano. E poi restare dietro le quinte a difendersi dai processi, a tirare i fili della politica con un potere pur sempre smisurato. I vecchi leader democristiani, quelli immarcescibili, loro sì sapevano quando uscire di scena per ritornare al momento giusto. Tremonti, Alfano, Letta...Nessuno dei tre faticherebbe a trovare appoggi nell`Udc. Specie il primo, sarebbe la migliore garanzia per la Lega. Resistere a oltranza, invece, a che pro? Tra gli strateghi Pdl si fatica a trovare una risposta convinta. Qualcuno (Osvaldo Napoli) scuote la testa: «Qui non si fanno prigionieri, possiamo solo combattere, andrà come dio vuole». I più tacciono, sospirano, fremono e se la cavano con un «aspettiamo di leggere le carte, vediamo che cosa succede». Con un leader «sputtanato» non si può certo correre alle urne, questo risulta chiaro ai gerarchi del Cavaliere. Allora sì che Bossi diventerebbe padrone del Nord... Qualcuno più pessimista si spinge a paventare l`esilio di Bettino nella Tunisia. Anzi, «di questo passo Silvio farà la fine di Ben Ali». La sensazione è che in pochi giorni si consumerà tutto”.
Governo e maggioranza, insomma, come denuncia da tempo il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, sono attorcigliati e bloccati dalla vita privata del premier, mentre il paese avrebbe bisogno di affrontare i notevoli problemi posti dalla globalizzazione, dalla crisi economica e sociale, dalla disoccupazione, dal reddito delle famiglie, dal debito pubblico…..

2. SETTIMANA DECISIVA: FEDERALISMO IN PARLAMENTO. SENZA UN SI’ LA LEGA STACCA LA SPINA AL GOVERNO.
In parlamento questa sarà la settimana decisiva per capire se il Federalismo passa o no: va in discussione infatti il decreto applicativo sulla finanza locale. Il ministro Roberto Calderoli, della Lega nord, ha tentato diverse mediazioni per cercare di avere i voti necessari al varo delle norme contenute nel provvedimento. Il Pd è stato chiaro: “Noi – ha detto il segretario Pier Luigi Bersani – abbiamo la nostra proposta di federalismo, i nostri paletti. Siamo pronti a confrontarsi. Ma non un federalismo se è pasticciato e includente”. Sì al confronto, no al voto su testi che il Pd giudichi in modo negativo.
Sarà un passaggio decisivo, questo del federalismo, anche per il futuro della legislatura. Se la Lega non avrà la certezza di portare a casa un provvedimento che è diventato la sua bandiera, staccherà la spina al governo.

3. FIAT. DOPO IL REFERENDUM, COMINCIA LA BATTAGLIA PER VARARE NUOVE NORME SULLA RAPPRESENTANZA.
Bisogna approvare subito nuove norme sulla rappresentanza sindacale, ha ripetuto anche ieri il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ricordando che su questi temi il Pd ha lavorato a lungo, ha predisposto una proposta nelle sue assemblee nazionali, e una proposta di legge. Dopo l’accordo separato su Mirafiori e il referendum che l’ha confermato sia pure di stretta misura questo passaggio è diventato indispensabile.
La Cgil ha già invitato la Confindustria e gli altri sindacati a confrontarsi su questo tema. Ed ha annunciato che sul diritto di sciopero si potrebbe addirittura sollevare un problema di costituzionalità dell’accordo raggiunto a Torino.
Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, da tempo fautore di una svolta alla Marchionne ha ribadito invece di essere contrario a norme di legge, auspicando la moltiplicazione di accordi sulla scia di Mirafiori e di accordi sulla rappresentanza solo tra le parti sociali.
Nel dibattito sul dopo Mirafiori sta crescendo anche il tema della partecipazioni dei lavoratori o ai profitti (quando ci sono) delle imprese o (modello tedesco) alla gestione.

4. MENTRE L’ITALIA E’ BLOCCATA DALLE AVVENTURE DEL PREMIER IL MONDO CORRE ALLA VELOCITA’ DELLA LUCE: TUNISIA NEL CAOS; MEDIO ORIENTE IN FIBRILLAZIONE; USA E CINA, CHIARIMENTO AL VIA TRA GIGANTI. L’EUROPA STA A GUARDARE, MA INTANTO MERKEL LANCIA IL SUO CANDIDATO PER LA GUIDA DELLA BANCA CENTRALE.
Guerra civile in Tunisia. Dopo la fuga del premier Ben Ali (il cui insediamento molti anni or sono fu favorito dagli italiani) l’esercito sta cercando di controllare gli ultimi reparti fedeli al leader fuggito, ma nel paese è il caos: i ribelli hanno attaccato le residenze di familiari e sodali di Ben Alì, ma il caos ha favorito anche le banche di criminali che hanno colto l’occasione per spadroneggiare nel paese. In Tunisia vi sono molte imprese italiane, a cominciare da colossi come Benetton.
Anche in Algeria, Marocco ed Egitto (in questo caso per motivi religiosi) la tensione è alta. Così come in Medio Oriente, in particolare in Libano, dove traballa la fragile stabilità raggiunta dopo l’ultima guerra civile.
Alle porte dell’Italia, sull’altra sponda del Mediterraneo, stanno cambiando molte cose. L’Italia sarà in ogni caso interessata a tali cambiamenti.
Domani sera una delegazione cinese sarà a Washington per incontrare Barack Obama. E sarà un’incontro storico. Gli Stati Uniti stanno facendo fatica a collocare una massa crescente di titoli di Stato per coprire un debito pubblico in espansione (e se dovessero tagliarlo in modo drastico non potrebbero mantenere consistenti spese per gli investimenti in armamenti, cosa che consente agli Usa di restare la prima potenza mondiale, anche se economicamente insidiata dai nuovi giganti). Per questo hanno bisogno del sostegno cinese sul mercato finanziario (la Cina possiede titoli pari al 21 per cento del debito Usa, per un ammontare di oltre 850 miliardi di dollari). E dei consumi cinesi per esportare di più. Due articoli su La Repubblica (ieri ve ne erano su Il Sole 24 Ore) oggi spiegano bene questo passaggio. Scrive Giampaolo Visetti (l’altro articolo è di Federico Rampini): “Quarant`anni dopo l`avvio delle relazioni diplomatiche tra Cina e Stati Uniti, il presidente Hu Jintao atterra domani a Washington con un`agenda inimmaginabile, rispetto a quella che Mao Zedong presentò a Richard Nixon. Nel 1972 il leader di una nazione fallita chiese esplicitamente all`America un piano di aiuti per salvare 820 milioni di contadini dalla fame. Domani il capo del Paese dei record, che si appresta a salvare e a guidare il mondo in questo secolo, baderà invece a rassicurare la Casa Bianca su una ragionevole lentezza del tramonto Usa. I ruoli non sono ancora invertiti, ma oggi è Barack Obama a dover chiedere alla Cina un programma di salvataggio per gli Stati Uniti e per l`Occidente, cercando di capire non se, ma quando Pechino supererà anche Washington iniziando a controllare il mondo che gli Usa rappresentano”.
La Cina sta intervenendo in questo periodo anche per sostenere l’Europa, come contraltare agli Usa: mentre la speculazione e le grandi banche d’affari statunitensi stanno attaccando ripetutamente gli stati europei e i loro titoli pubblici (perché sono oggettivamente in difficoltà, ma il sospetto è che vi sia anche il tentativo di togliere appeal ai concorrenti dei titoli di Stato Usa), i cinesi stanno acquistato a man bassa titoli emessi dai paesi più deboli dell’euro.
La Germania sta scoprendo le carte in vista del rinnovo dei vertici della Banca centrale europea. La cancelliera Angela Merkel è tornata in questi giorni a sponsorizzare il candidato tedesco, Alex Weber, perché è bravo e perché la Germania vuole avere in mano le leve del comando per imporre all’Europa il suo tipo di rigore. Weber è il principale concorrente dell’italiano Mario Draghi.

Etsi Marchionne non daretur. P. Ichino.


Intervento di Pietro Ichino alla Direzione del Pd di giovedì scorso, che Pierluigi Bersani ha ripreso nelle conclusioni: a riprova che su questa materia il Pd è, in realtà, più unito di quanto sembra.

RIFORMARE LE RELAZIONI INDUSTRIALI...ETSI MARCHIONNE NON DARETUR.

Se fossimo un Paese normale, non ci sarebbe niente di strano o di male nel fatto che ci siano alcuni di noi che si pronunciano a favore del “no” al referendum di Mirafiori e altri che si pronunciano a favore del “sì”. Si tratta del “sì” e del “no” a un accordo sindacale; e in un Paese normale un partito come il nostro che ha tra i suoi principi fondamentali il rispetto dell’autonomia del sindacato si guarderebbe bene dall’interferire nelle scelte relative alla stipulazione di un contratto collettivo. In quel Paese normale ci sarebbe, tra i lavoratori aderenti al Partito democratico, una parte che, considerate meno gravi le ombre nell’accordo e nel piano rispetto al buio pesto in cui ci si troverebbe altrimenti, e ritenendo che tutto sommato Sergio Marchionne fin qui abbia dato buona prova di sé come imprenditore, decide di votare “sì”; un’altra parte che invece decide di votare “no”, ritenendo che i sacrifici superino i benefici, oppure ritenendo inaffidabile un imprenditore che preannuncia “festeggiamenti a Detroit” in caso di bocciatura dell’accordo, oppure ancora ritenendo incompatibili con un’equa ripartizione dei frutti della scommessa comune i compensi milionari che l’Amministratore delegato riserva personalmente a sé stesso anche in riferimento a risultati aziendali di breve termine. Entrambe le scelte sono pienamente ragionevoli; e dovrebbe essere ovvio il pieno diritto di cittadinanza, in un Partito democratico rispettoso dell’autonomia della sfera sindacale, per i sostenitori dell’una come per i sostenitori dell’altra.
Il fatto che, invece, il “sì” e il “no” di Mirafiori assumano una valenza politica tale da costringerci a discuterne in questa sede è l’effetto di una circostanza gravissima che caratterizza oggi il nostro Paese: la sua drammatica chiusura agli investimenti stranieri. Il problema è questo: da quindici anni, nonostante il nostro ingresso nel sistema dell’euro, nessuna altra grande multinazionale è venuta a investire in casa nostra. Con la conseguenza che oggi, di fronte all’aut aut dell’Amministratore delegato della Fiat, i lavoratori sono totalmente privi di alternative. Questo essendo il problema, ciò su cui il Pd deve pronunciarsi in modo chiaro e netto non è tanto il “sì” o il “no” al piano industriale di Marchionne, quanto la diagnosi circa questa malattia mortale del Paese e la terapia necessaria per guarirla.
Insomma, credo che dobbiamo porre al centro della nostra riflessione non Marchionne e il suo piano per la Fiat, ma gli altri 29 Marchionne di cui nessuno parla (poi vi dico perché proprio 29): tutte le grandi multinazionali che potrebbero investire nel nostro Paese e non lo fanno. Vorrei proporvi di discutere delle questioni sollevate dalla vicenda Fiat come se la vicenda Fiat fosse già risolta, in un senso o nell’altro, o non si fosse mai posta. Del problema dell’incapacità del nostro Paese di attirare investimenti stranieri noi dovremmo discutere comunque, … etsi Marchionne non daretur.
La questione è di vitale importanza, perché, per un verso, l’Italia nei prossimi cinque anni deve trovare almeno 40 miliardi ogni anno per adempiere l’obbligo comunitario di ridurre drasticamente il proprio debito pubblico. Sarà un miracolo riuscire a trovarli, attingendo in modo equilibrato a riduzioni di spesa, dismissioni di patrimonio pubblico e – forse – anche un’imposta patrimoniale straordinaria; ma il rischio gravissimo sarà di strangolare, con questa manovra, la nostra economia. Per altro verso, l’unica fonte di risorse per rilanciare lo sviluppo economico del Paese può essere costituita dall’apertura agli investimenti stranieri. Su questo terreno i dati disponibili ci mostrano l’Italia penultima della classe in Europa, per capacità di intercettare gli investimenti nel mercato globale dei capitali (dietro di noi c’è solo la Grecia); e gli stessi dati ci dicono che, se in quella graduatoria l’Italia riuscisse a recuperare il distacco che la separa da un Paese europeo mediano, come l’Olanda, questo le consentirebbe di avere ogni anno un maggior flusso di investimenti stranieri pari al 3,6 per cento del suo Pil: cioè pari a quasi 60 miliardi all’anno (ecco perché parlo degli altri 29 Marchionne: se lui ci propone, per i prossimi dieci anni, 2 miliardi di investimento ogni anno, dobbiamo porci il problema degli altri 29 investimenti analoghi a questo che restano ogni anno fuori dal nostro Paese e che dovremmo invece essere capaci di tirare in casa nostra).
Fino a un anno fa, a chi avvertiva che un contributo determinante alla chiusura dell’Italia è dato dal nostro sistema vischioso e inconcludente delle relazioni industriali, la risposta usuale era quella “benaltrista”: le “vere cause” della chiusura sono i difetti di funzionamento delle amministrazioni pubbliche e delle infrastrutture, i servizi alle imprese troppo cari per mancanza di concorrenza nei rispettivi mercati, la criminalità organizzata. In questa risposta c’era e c’è sicuramente molto di vero. Ora, però, la vicenda Fiat ci dice una cosa diversa: Marchionne non indica come questione cruciale da risolvere per dar corso al suo piano industriale né la nostra burocrazia pubblica, né le nostre infrastrutture difettose, né la criminalità diffusa, bensì essenzialmente la questione dell’effettività ed efficacia del contratto aziendale nei confronti di tutti i lavoratori interessati, in un ordinamento come il nostro che questa effettività ed efficacia oggi non è in grado di assicurare. Non è in grado di assicurarle per due gravi lacune delle regole: in materia di rapporti tra contratti collettivi nazionali e aziendali – la questione dei requisiti e dei limiti per la derogabilità del contratto collettivo nazionale ‑ e in materia di efficacia della clausola di tregua, cioè dell’impegno a non scioperare contro il contratto.
Ancora oggi sono in molti ad affannarsi a dire che i veri ostacoli agli investimenti stranieri sono tutt’altri; ci saranno certamente anche gli altri, ma nel caso Fiat la questione critica è questa: un sistema delle relazioni industriali vischioso e inconcludente, nel quale è difficile negoziare un piano industriale che si discosti dal modello-standard delineato (magari quarant’anni fa) dal contratto collettivo nazionale di settore; e anche quando si è riusciti a negoziarlo non si è affatto sicuri che esso possa davvero funzionare. Ed è molto ragionevole ritenere che questi stessi ostacoli, magari in modo meno evidente di quanto si osserva nel caso Fiat, svolgano un ruolo importante anche nel chiudere l’Italia ai piani industriali di altre grandi multinazionali che potrebbero altrimenti essere interessate a investire da noi.
È dunque di vitale importanza che noi affrontiamo questa questione, non tanto per i due miliardi di investimenti all’anno per 10 anni che ci propone Marchionne, ma per recuperare alla crescita del Paese quei 60 miliardi di investimenti che ogni anno mancano all’appello e che invece potremmo tirare in casa nostra se il nostro Paese funzionasse (non dico come la Finlandia o la Gran Bretagna, ma anche soltanto) come l’Olanda. Investimenti che ci porterebbero non soltanto domanda di lavoro aggiuntiva, con il conseguente aumento delle retribuzioni, ma anche innovazione tecnologica e organizzativa, che significa aumento di produttività, la quale è a sua volta la condizione essenziale per un ulteriore miglioramento delle condizioni di lavoro.
Dovrebbero essere per primi i sindacati a occuparsi del recupero di questo flusso di investimenti a cui noi oggi sistematicamente ci chiudiamo: perché per i lavoratori non c’è protezione più efficace – né di fonte legislativa, né di fonte collettiva – di quella che è data da un mercato del lavoro che offre a tutti un’ampia possibilità di scelta tra aziende diverse, quindi la possibilità di sbattere la porta in faccia al datore di lavoro che ti tratta male, o meno bene di altri, avendo a disposizione molte alternative.
Entro domani, in un modo o nell’altro la vicenda Fiat verrà decisa dal referendum di Mirafiori; ma quest’altra questione trenta volte più importante resterà apertissima. E su questo terreno – molto più che sul “sì” o sul “no” a Mirafiori – il Pd non può esimersi dal dire chiaro ciò che pensa e ciò che propone. Fino a oggi non lo ha fatto con la chiarezza e la tempestività che sarebbero state necessarie.
Il Pd deve dire ciò che pensa, innanzitutto, circa il rapporto tra contratto nazionale e contratti aziendali nello stesso settore. Su questo tema difficile e delicato abbiamo assistito negli ultimi mesi a un vero e proprio fuoco di sbarramento da quella parte del movimento sindacale e della sinistra politica che vede nella regola della rigida inderogabilità del contratto collettivo nazionale una garanzia di protezione dei “diritti fondamentali” dei lavoratori. La difesa dei “diritti fondamentali” è stata invocata anche in riferimento specifico agli accordi di Pomigliano e di Mirafiori; ma, a ben vedere, il motivo vero dell’opposizione a quegli accordi non è costituito dal contenuto delle deroghe in essi contenute al contratto collettivo nazionale: ciò che preoccupa la sinistra sindacale e politica è che con l’ammettere la derogabilità del contratto nazionale ci si collochi su di un piano inclinato, dove “si sa dove si comincia ma non si sa dove si va a finire”. Noi, però, sappiamo benissimo dove l’Italia va a finire se resta ferma, se non ricomincia a crescere; sappiamo anche che per tornare a crescere occorre che il nostro Paese si apra all’innovazione nel processo produttivo; e che l’innovazione – direi quasi “per definizione” – non si presenta quasi mai come fenomeno che investe un intero settore produttivo, bensì come esperimento che interessa una singola azienda e solo in un secondo tempo si estende alle altre. Se dunque, in materia di organizzazione del lavoro, struttura delle retribuzioni, distribuzione degli orari, inquadramento professionale, conserviamo la vecchia regola di rigida inderogabilità del contratto collettivo nazionale di settore, il risultato è una chiusura del sistema all’innovazione in tutti questi campi. Certo, non c’è soltanto l’innovazione buona: c’è anche quella cattiva; ma non possiamo, per paura dell’innovazione cattiva chiuderci anche a quella buona. E per aprirci all’innovazione buona abbiamo bisogno di un sindacato che sappia operare come intelligenza collettiva dei lavoratori nella valutazione dei piani industriali e, se la valutazione è positiva, sappia guidare i lavoratori nella scommessa comune con gli imprenditori su quei piani. A questa idea di sindacato si ispira la riforma del diritto sindacale proposta nel disegno di legge n. 1872 presentato da 55 senatori democratici nel 2009 – ben prima che si aprisse la vertenza Fiat – e che, credo, dobbiamo tutti oggi sostenere con grande determinazione. Non per imporre il modello del “sindacato della scommessa” rispetto a quello tradizionale del “sindacato dei diritti”, ma per garantire la possibilità di un confronto aperto e fluido tra i due modelli; per garantire ai lavoratori una reale possibilità di scelta tra di essi, nelle diverse circostanze e in considerazione della diversa qualità dei piani industriali che vengono loro proposti, nonché della diversa qualità degli imprenditori che li propongono.
Il Pd deve dire chiaramente ciò che pensa, poi, sulla questione che Susanna Camusso ha indicato con l’espressione un po’ sindacalese “esigibilità del contratto”, ma che è più chiaro indicare con l’espressione validità ed efficacia della clausola di tregua, cioè dell’impegno contenuto nell’accordo sindacale a non scioperare contro l’accordo stesso finché esso è in vigore. Oggi in quasi tutti i Paesi dell’occidente industrializzato è pacifico che la clausola di tregua contenuta in un contratto collettivo vincoli tutti i lavoratori cui il contratto stesso si applica. Da noi questa regola è stata introdotta, vent’anni fa, soltanto in riferimento ai servizi pubblici essenziali, mentre per tutti gli altri settori su questa materia è rimasta una lacuna legislativa; ora la vicenda Fiat mostra come sia necessario che questa lacuna venga colmata, perché sia garantita l’effettività dei contratti collettivi. Non soltanto nell’interesse dell’impresa, ma anche nell’interesse dello stesso sindacato e dei lavoratori che esso rappresenta: perché un sindacato che al tavolo delle trattative non può spendere la moneta di scambio di un impegno credibile di tregua è un sindacato privo di potere contrattuale.
La nostra iniziativa per un sistema delle relazioni industriali più aperto ed efficiente deve dunque indicare tra i suoi punti fondamentali la riforma non solo delle regole in materia di rappresentanza nei luoghi di lavoro, ma anche delle regole sulla contrattazione collettiva, ivi compresa la materia della clausola di tregua, perché ne risultino definiti in modo chiaro sia il diritto della coalizione sindacale maggioritaria a negoziare contratti con efficacia vincolante nei confronti di tutti i lavoratori interessati, sia il diritto del sindacato minoritario alla rappresentanza riconosciuta in azienda, anche quando esso ritenga di non dover sottoscrivere il contratto.
Il Pd deve, infine, mobilitarsi con decisione per l’ampliamento degli spazi di partecipazione dei lavoratori nell’impresa. Va ribadito in proposito che la sede ideale per la partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche è l’accordo aziendale sul piano industriale; ma questo non toglie che sia necessario un intervento legislativo per consentire e potenziare tutte le altre possibili forme di trasparenza della gestione, di informazione e controllo sull’andamento della scommessa comune tra lavoratori e imprenditore. A questo tende il disegno di legge sulla “partecipazione” alla cui elaborazione abbiamo dato un contributo decisivo in seno alla Commissione Lavoro del Senato, raggiungendo in proposito anche un accordo con la maggioranza, ma che ciononostante giace ormai da un anno e mezzo, bloccato dal veto del ministro del Lavoro.
Su questi temi, che sono oggetto di un importante documento sulla riforma delle relazioni industriali pubblicato il 29 dicembre scorso da parlamentari di tutte le aree del Pd, mi sembra che l’elaborazione e il dibattito di questi ultimi due anni abbiano creato le condizioni per una convergenza di tutto il Partito democratico: è ora che questa convergenza si traduca in una forte iniziativa politica, nel Paese e in Parlamento.

Bernareggio. Marcia per la Pace e l'integrazione. VIDEO.

Bernareggio, 16/01/11. Ieri partendo dal parcheggio delle scuole elementari, si è svolta patrocinata dal Comune, in occasione della Giornata del Migrante e del Rifugiato e del mese della Pace, la manifestazione “IN MARCIA PER LA PACE E L’INTEGRAZIONE”, organizzata dall’Associazione Mondo a Colori, dal Comitato Pace e Democrazia e dalla Comunità Pastorale di Bernareggio, Villanova, Aicurzio, Sulbiate. La numerosa partecipazione ha sorpreso positivamente gli stessi organizzatori. Presenti all’evento non solo molte famiglie con bambini ma anche tanti giovani e adulti.

L’evento preparato in poco meno di due settimane dimostra che si possono ottenere importanti risultati quando si condividono Valori e obiettivi e si ha volontà e capacità di unirsi e di lavorare insieme.

Di seguito pubblichiamo un breve video scusandoci per la scarsa qualita’ delle immagini. E’ evidente: non siamo professionisti ma dilettanti, in questo caso opportunamente, “armati” solo di buona volonta’.




Testimonianaze:






Il falò.

B. perseguitato, ma generoso, altruista e filantropo...

Foto de L'Unità.

Per Pier Luigi Bersani il videomessaggio di Berlusconi ai Promotori della Liberta e' stato ''uno spettacolo imbarazzante e desolante'' dove il premier ha compiuto ''un'aggressione vergognosa ai Pm. Evidentemente pensa che gli Italiani siano imbecilli'' perche' viene ''negata l' evidenza''. Lo ha detto il leader del Pd al Tg2. (...)

Per il Presidente della Camera, Gianfranco Fini Berlusconi deve andare dai magistrati. (...)