3 maggio 2019

L’algoritmo dell’antipolitica

Se un tempo per vincere si cercava il messaggio unificante, oggi conta dividere ed estremizzare: gli estremisti sono ormai il centro del sistema
Matteo Orfini - Left Wing 

All’origine del populismo c’è la sfiducia. Sfiducia nelle istituzioni e in tutto ciò che vi assomigli: ieri i partiti e la politica, oggi anche la stampa e i mezzi di comunicazione, la scienza, gli intellettuali, la chiesa, le ong e il mondo del volontariato. Mai avremmo immaginato un’Italia in cui si viene incriminati per aver salvato delle vite umane, in cui i bambini nelle scuole sono discriminati perché figli di poveri, in cui chi porta del pane a chi non ne ha viene aggredito, in cui persino ai parroci si impone di rinnegare il Vangelo e rifiutare la carità a chi è individuato come diverso, come non appartenente al popolo, secondo un criterio puramente etnico. Sono le cronache dell’Italia gialloverde, ma non differiscono molto, purtroppo, da quelle dell’Ungheria di Orbán e dei paesi di Visegrád, o degli Stati Uniti di Donald Trump.

Questo mondo è figlio di una lunga stagione di egemonia della destra. Una destra che di fronte al crollo del modello liberista, imposto negli anni di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, ha saputo reagire facendosi opposizione e alternativa a se stessa. Il populismo che ha cambiato il volto dell’Occidente è esploso lì, nel 2016, proprio come allora: prima in Gran Bretagna e subito dopo negli Stati Uniti, con il referendum sulla Brexit e l’elezione di Trump. Londra e Washington, capitali della “rivoluzione liberista” all’inizio degli anni ottanta, sono diventate d’un tratto – complice la crisi dell’economia mondiale innescata proprio dalle ricette reaganian-thatcheriane – le capitali della “rivoluzione populista”. Così la destra ha traghettato se stessa fuori dalla crisi che essa stessa aveva generato. È successo negli Stati Uniti ed è successo nel nostro paese.