19 agosto 2016

La lezione della Brexit per il futuro dell’Europa

Le relazioni del Regno Unito con l’Europa non sono mai state semplici, segnate come sono dalla dialettica tra l’orgoglio per la propria insularità e il misto di attrazione e diffidenza verso il “continente”. La prossima puntata della saga andrà in onda il 23 giugno, quando i cittadini britannici saranno chiamati a pronunciarsi sulla cosiddetta Brexit, cioè l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea (UE).

Si tratta di un tema scottante, che divide l’opinione pubblica britannica; l’esito del referendum è al momento quanto mai incerto, nonostante prese di posizione autorevoli contro la Brexit, come quella di Barack Obama, o le affermazioni di David Cameron sui rischi per la pace per tutto il continente europeo. Una conferma indiretta che una vittoria della Brexit non sia un’eventualità remota arriva dal mondo della finanza: le grandi banche e istituzioni finanziarie hanno già approntato i piani per l’abbandono della City londinese nel caso che questa eventualità si verificasse.

Si tratta di un appuntamento carico di significato non solo per il Regno Unito, ma per la UE nel suo insieme e, di conseguenza, anche per il nostro Paese. Come cittadini italiani non siamo chiamati a esprimerci con il nostro voto, ma sarebbe ingenuo pensare che la Brexit sia una vicenda che riguardi solo Londra e Bruxelles. La scelta di uno degli Stati membri di abbandonare la UE concerne in modo diretto tutti i suoi cittadini, con ripercussioni difficili da immaginare al momento, anche perché sarebbe il primo caso. In fondo, ciò che è in gioco nel voto britannico non è solo l’eventuale recesso di uno Stato membro, ma la concezione stessa della UE. E ciò, come vedremo, sia che i britannici decidano di restare, sia che scelgano di uscire.

Questo appuntamento giunge tra l’altro in un periodo difficile per l’Unione Europea, che fatica a rispondere in modo adeguato ad alcune importanti sfide: il prolungarsi della crisi economica, i cui effetti sono particolarmente pesanti sui Paesi dell’Europa meridionale con forti ripercussioni sociali; le tensioni riguardanti la gestione della moneta unica; il terrorismo internazionale che ha già colpito Parigi e Bruxelles e minaccia di ripetersi; la risposta politica, del tutto insufficiente e disordinata, alla crisi umanitaria dei richiedenti asilo che arrivano alle frontiere dei Paesi europei. Su questi temi le istituzioni europee non riescono ad avanzare, bloccate dai veti incrociati degli Stati che impediscono decisioni davvero incisive. L’adozione di misure poco efficaci e prive di una visione a lungo termine finisce per vanificare la credibilità della UE agli occhi dei cittadini. Il risultato è che l’euroscetticismo, tradizionale patrimonio britannico, si sta diffondendo con forza anche nell’opinione pubblica degli altri Paesi membri, che si scoprono così meno diversi e distanti dal Regno Unito da questo punto di vista.

In questa congiuntura il referendum britannico è un evento dalle possibili conseguenze dirompenti per il Regno Unito (la cui stessa unità potrebbe essere messa in discussione per il tradizionale filoeuropeismo della Scozia) e per l’Europa. Rappresenta anche l’occasione per fare emergere i fattori che minano la vitalità della UE e, auspicabilmente, l’opportunità di innescare uno shock che stimoli una ripresa della progettazione del futuro europeo. L’analisi del quesito referendario britannico ci svela la portata della posta in gioco, spingendoci a riflettere sulle risorse da attivare per far fronte alla sfida.


La posta in gioco per il Regno Unito e per la UE

A prima vista l’alternativa oggetto del referendum potrebbe sembrare semplice: uscire dalla UE o rimanere al suo interno secondo le nuove condizioni previste nell’accordo negoziato dal Governo conservatore di David Cameron con Bruxelles lo scorso febbraio. In realtà le conseguenze di questa scelta sono molto articolate e aprono a prospettive incerte.

In caso di vittoria della Brexit, si aprirà tra il Regno Unito e la UE una fase negoziale riguardante i diversi aspetti del recesso e la regolazione dei rapporti reciproci nella fase successiva. Secondo i Trattati in vigore, questa fase dovrebbe durare al massimo un biennio. Finora l’eventualità della Brexit è stata considerata soprattutto in termini di impatto sull’economia britannica ed europea, a partire da stime e valutazioni di istituzioni internazionali e di soggetti privati. L’OCSE, ad esempio, ritiene che l’economia del Regno Unito si troverebbe a pagare una vera e propria “tassa per la Brexit” per diversi anni, con una diminuzione del PIL stimata nell’ordine del 3% nel 2020 (OECD, The Economic Consequences of Brexit: a Taxing Decision, OECD Economic Policy Papers n. 16, aprile 2016). Anche le prospettive per le economie dei Paesi UE non sarebbero rosee se il mercato unico non includesse più il Regno Unito e si arrivasse alla reintroduzione di barriere alla libera circolazione di persone, capitali, merci e servizi.

L’esito opposto – sconfitta della Brexit – non equivale però a un mantenimento dello status quo, in quanto cambierebbero le basi e il perimetro della partecipazione britannica alla UE e questo comporta la necessità di ridiscutere l’architettura e il funzionamento dell’Unione. Questo cambiamento incorpora elementi che mettono in discussione anche radicalmente il senso della costruzione europea e dunque ne ipotecano il futuro. Si tratta di un elemento su cui non si è ancora riflettuto a sufficienza, che è una diretta conseguenza dello statuto ancora più speciale di cui godrebbe il Regno Unito all’interno della UE.

Il referendum è il risultato della promessa fatta da David Cameron durante la campagna per le elezioni politiche britanniche del 2015, vinte dal Partito conservatore, di cui è leader: rinegoziare le forme dell’adesione britannica all’Unione e sottoporre al voto referendario l’esito di questo negoziato. Si tratta di una strategia adottata con l’intento di neutralizzare le istanze antieuropeiste più radicali e le forze politiche che su di esse andavano costruendosi un consenso elettorale, proponendo come alternativa la permanenza all’interno della UE a condizioni meno stringenti. Volendo riformulare lo slogan della campagna referendaria britannica per il sì alla UE (Britain stronger in Europe, Una Gran Bretagna più forte all’interno dell’Europa), la proposta di Cameron è di un Regno Unito più indipendente in una UE più debole.

Il contenuto dell’accordo mostra con chiarezza i tre aspetti ritenuti essenziali oltremanica per restare nell’Unione: protezione dei propri interessi economici con l’esclusione di qualsiasi discriminazione per non far parte dell’eurozona; minore protezione sociale dei cittadini UE emigrati nel Regno Unito per il primo periodo di soggiorno e lavoro; disimpegno nella costruzione di un’Europa sovranazionale, visto che il Regno Unito non sarebbe più tenuto a osservare la clausola dei Trattati per «un’Unione sempre più stretta». Al di là delle singole previsioni dell’accordo, ciò che chiaramente emerge è la volontà del Regno Unito di non essere coinvolto nella costruzione di un progetto europeo che vada oltre la dimensione economica, e anche lì con limiti di autonomia ben precisi. Con questo accordo la tradizionale politica britannica del semi-distacco verso la UE compie un passo in avanti nel segno della decisa difesa di uno statuto singolare all’interno del consesso europeo.

L’esito del referendum ci dirà se Cameron avrà vinto la sua scommessa, almeno nel breve periodo. Uno sguardo più lungimirante non può non interrogarsi sulla bontà di una scelta che per togliere fiato all’euroscetticismo indebolisce la UE anziché ridarle slancio. Il rischio è di innescare una spirale di inseguimento al ribasso: per chi si oppone alle scelte e ai valori che stanno alla base della UE non vi sarà sempre “troppa” Europa?

L’accordo concluso con Cameron, che in caso di sconfitta della Brexit entrerà in vigore senza ulteriori passaggi negoziali, non riguarda solo le modalità della partecipazione britannica, ma investe le fondamenta stesse della UE.

Da un lato, è infranta l’idea della costruzione comune di un futuro per l’Unione nel segno di un’integrazione progressiva sulla base di un progetto condiviso: senza questa progettualità radicata in una visione e in valori comuni, quale sarebbe la differenza tra la UE e un accordo internazionale per la regolamentazione delle relazioni economiche tra Stati indipendenti? Dall’altro, l’accordo incide sulle basi della solidarietà interna, perché riposa sull’idea di una UE a servizio degli interessi economici dei più forti. Infatti le quattro libertà che hanno costituito i pilastri del mercato unico sono sottoposte a una tacita riscrittura in nome del liberalismo: mentre si mantiene e si incentiva la libertà di circolazione dei capitali, dei servizi e delle merci, si limita quella delle persone di muoversi alla ricerca di opportunità migliori. In altri termini, si riconosce la libertà agli investitori o alle imprese britannici di operare in tutto il territorio della UE, realizzando profitti anche in Paesi economicamente più fragili o attirando i loro capitali sulla piazza finanziaria londinese. Invece si ostacolano i cittadini degli altri Paesi nel tentativo di cogliere le opportunità che il Regno Unito può offrire loro e che sono anche il frutto della prosperità prodotta dal mercato unico. In termini di rapporti tra Paesi, si crea un vantaggio competitivo per quelli più ricchi di soldi e tecnologia a danno di quelli più ricchi soprattutto di manodopera.


“Fare memoria” per costruire il futuro?

Qualunque sia l’esito del referendum sulla Brexit, l’Europa sarà dunque chiamata a ripensare se stessa: in un caso senza il Regno Unito, dovendo comunque gestire i rapporti con esso e il probabile effetto domino del suo recesso; nell’altro per fare i conti con le implicazioni del nuovo status britannico al proprio interno. Dal 24 giugno si aggiungerà dunque una ragione in più per ripensare l’Europa e le sue istituzioni, compito che, per la sua urgenza, non è più differibile.

I vertici della UE ne sono consapevoli e per questo fanno appello all’eredità di quanti hanno pensato e costruito il progetto europeo all’indomani della Seconda guerra mondiale: «in un momento in cui l’Europa e la crisi vengono spesso messe sullo stesso piano, tendiamo facilmente a dimenticare ciò che l’Europa ha già fatto e ciò di cui è capace […] un progetto di pace e umanità» (Juncker J.-C. – Schulz M., «Le tre missioni del futuro per noi leader della UE», in la Repubblica, 6 maggio 2016). Di recente anche papa Francesco (Discorso per il conferimento del premio Carlo Magno, 6 maggio 2016), affrontando il tema del futuro della “nonna” Europa, ha indicato come via rigeneratrice il «fare memoria, prendere un po’ di distanza dal presente per ascoltare la voce dei nostri antenati».

Questi richiami ai padri nobili del processo di integrazione europea non sembrano però avere molta presa sull’opinione pubblica, come attesta il diffondersi dell’euroscetticismo. È lecito domandarsi perché: sono forse percepiti come richiami retorici, formulati alla stregua di clausole di stile senza nessuna vera forza sostanziale? O derivano da una comprensione del fare memoria che rischia di mummificare il passato, rendendolo sterile? Quanto più il tempo trascorre, tanto più il richiamo al valore normativo del passato richiede una operazione ermeneutica, che ne mostri il valore per un oggi ormai molto diverso, nella linea del metodo più che del merito.

La sollecitazione del Papa ci offre uno spunto in questa direzione, quando richiama l’importanza dell’accesso «a quelle acquisizioni che hanno aiutato i nostri popoli ad attraversare positivamente gli incroci storici che andavano incontrando». In altri termini fare memoria consiste nel riconoscere le dinamiche di fondo che furono alla base di quanto accaduto nel passato per poter cogliere nel presente il modo in cui esse potrebbero essere di nuovo vitali.

In questa linea, dall’esame delle origini del percorso di costruzione dell’attuale UE emergono alcuni tasselli fondamentali: una situazione di grave crisi di valori e risorse per l’Europa intera, uscita prostrata dalla Seconda guerra mondiale e alle prese con le ferite dello scontro tra i suoi popoli; la ferma e condivisa volontà di evitare la ripetizione di tragedie simili; il desiderio di costruire una società europea nel segno della pace e della tutela della dignità umana. Lo strumento per cominciare a realizzare tutto questo fu nel 1951 l’istituzione della CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) che significativamente metteva in comune tra Paesi appena usciti da un sanguinoso conflitto proprio le risorse strategiche alla base dell’industria militare dell’epoca: una decisione in ambito economico, fondata però su motivazioni squisitamente politiche e su un’ottica di lungo periodo, ben più che sulla considerazione dei vantaggi puramente economici in termini di efficacia e di efficienza produttiva.

Ci sembra che proprio questa capacità di identificare mezzi e fini e concretamente di ordinare i mezzi di ambito economico ai fini di ambito politico rappresenti l’eredità più significativa delle origini del processo di unificazione europea, quella che più interpella le nostre società e i loro leader: la confusione tra fini e mezzi conduce a perdere di vista ciò è veramente rilevante. Oggi come allora quella sull’Europa è una domanda squisitamente politica: si tratta di decidere quale Europa vogliamo o non vogliamo, in quale Europa vogliamo stare dentro o da cui eventualmente stare fuori. Anche la risposta non può che essere politica, fondata su uno sguardo e una progettualità di lungo periodo, mentre le soluzioni economiche sono strumenti in vista di fini da conseguire, ma non possono assurgere a finalità a cui piegare tutto il resto.

Da questo punto di vista risulta quanto meno problematica la preponderanza delle considerazioni economiche in merito alla prospettiva della Brexit, che ne mette in secondo piano il significato e le ripercussioni sul piano politico internazionale ed europeo e sul rispetto dei diritti. È spia di un pericoloso riduzionismo di un discorso politico che interpella i cittadini, immaginando che essi compiano le proprie scelte sostanzialmente sulla base di considerazioni economiche, rivolgendosi cioè al loro portafoglio. Il fascino delle proposte populiste, che ricorrono non solo al lessico della razionalità economica, ma a quello dei richiami identitari e delle paure, ci dimostra che non è così: la demonizzazione di un discorso politico che si rivolge alla pancia degli elettori ha poco senso se non riesce a mettere a tema quanto, oggi come in passato, la politica sia un luogo di emozioni e di passioni, e non solo di interessi.

Un discorso politico maturo è in grado di articolare e integrare questi diversi piani. Per lungo tempo il progetto europeo ha saputo farlo, facendo leva su una dimensione ulteriore, forse la più preziosa e per questo la più potente: l’immaginazione, la capacità di sognare un futuro, anche “contro pronostico”, arrivando a rendere «impensabile» – è il termine usato nella motivazione dell’assegnazione del Nobel per la pace alla UE nel 2012 – quello che per secoli era stata la regola, cioè la guerra tra Francia e Germania. Forse la causa più profonda delle resistenze che oggi incontra l’idea di Europa deriva dalla rilettura in chiave liberista e contrattualista di quel sogno originario.


Per un federalismo che integra le differenze

Le conseguenze del referendum sulla Brexit, qualunque ne sia l’esito, rischiano di essere lo scoglio su cui il processo di integrazione europea va a infrangersi o il banco di sabbia su cui può arenarsi definitivamente. Nel lungo periodo farebbe poca differenza. Il pericolo è concreto e la sua probabilità aumenta quanto più quelle conseguenze saranno gestite solo sulla base di considerazioni di convenienza (economica o elettorale) di breve periodo o dell’agitare timori e paure. Come tutte le altre volte in cui si è trovata a un bivio, l’Europa ha bisogno di ripensare se stessa attingendo al piano dell’immaginazione e del sogno.

In questa linea il referendum contiene anche una provocazione: la richiesta britannica, sia pur espressa nelle forme limitate e problematiche di un orizzonte economicistico, contiene in radice la richiesta della tutela di una differenza. La stessa esigenza si annida, in mezzo a molte altre spinte, anche dentro le fatiche e i dubbi che molti nutrono nei confronti della UE e del suo funzionamento concreto. Il sogno europeo potrà sopravvivere solo se saprà presentarsi come una modalità per costruire una integrazione tra differenze che rinunci a qualsiasi progetto egemonico o omogeneizzante, riuscendo a offrire a tutti i partecipanti uno spazio e un riconoscimento. È questo il senso di un autentico federalismo e ciò che lo differenzia da processi di unificazione o peggio di fusione modellati sulle logiche delle operazioni di merger and acquisition tipiche del capitalismo finanziario. Probabilmente è proprio questa logica che spaventa almeno una parte dell’opinione pubblica negli accordi internazionali di libero scambio, che offrono una prospettiva di integrazione non autenticamente integrale: ne parla in questo numero (pp. 490-500) Frédéric Rottier a proposito del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership, Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti) e delle polemiche che lo circondano.

D’altra parte rinunciare al sogno di un percorso di integrazione delle differenze a livello europeo non sembra essere una soluzione percorribile nel lungo periodo: da una parte nessuno dei Paesi europei avrebbe una realistica possibilità di giocare un ruolo di qualche rilevanza sullo scacchiere globale, condannandosi quindi a subire le conseguenze di dinamiche decise altrove (in fondo è anche questo il senso dell’appello di Obama ai britannici), sia perché ciascuna delle società europee è ormai abitata da una tale varietà di differenze da non poter evitare la questione dell’integrazione. Non è un caso che la Brexit arrivi in una fase storica in cui si moltiplicano le proposte secessioniste, con relativi referendum, di porzioni di vari Paesi europei: cambia la scala, ma il problema è lo stesso, e per questo ha senso provare ad affrontarlo insieme.

C’è una ultima provocazione nella Brexit, su cui vale la pena almeno riflettere: il processo referendario è stato certamente gestito dai leader politici, ma la parola ultima è affidata all’insieme dei cittadini. Si manifesta così una responsabilità, differenziata ma comune, di tutti rispetto al futuro: l’Europa che avremo o non avremo, le differenze che riusciremo o non riusciremo a integrare, dipendono dai nostri politici, ma anche da tutti noi cittadini e dal nostro impegno a rendere i sogni realtà.

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