22 marzo 2018

Acqua in bottiglia

Il business sulle spalle pubbliche: alle Regioni 1 millesimo di euro al litro
Il rapporto Legambiente-Altreconomia. Gli enti locali applicano ancora canoni di concessione molto bassi, incassando pochi milioni di euro a fronte di un giro d'affari per le aziende da 2,8 miliardi. Con un rialzo delle tariffe a 2 centesimi al litro gli introiti potrebbero crescere fino a 280 milioni l'anno
di FLAVIO BINI Repubblica 21/3/2018

MILANO - L'acqua delle sorgenti italiane è un bene ambito dai consumatori di tutto il mondo ma continua ad essere concessa a prezzi irrisori alle aziende produttrici. È quanto denuncia il rapporto di Legambiente e Altreconomia "Acqua in bottiglia: un'anomalia tutta italiana", che evidenzia come in media le Regioni chiedano alle società appena 1 millesimo di euro al litro, 250 volte meno del prezzo che in media i cittadini pagano una bottiglia.
Come raccontato già da Repubblica a gennaio, le principali aziende del settore oggi presidiano tre quarti del mercato pagando meno di 12 milioni di euro a fronte di un giro d'affari di circa 2,8 miliardi di euro. Risorse che le Regioni incassano in base a canoni che stabiliscono in autonomia per le 290 concessioni presenti lungo il territorio, ma che portano il gettito totale ad appena a 18 milioni di euro secondo quanto indicato nell'ultimo Documento di Economia e Finanza. Un business che va di pari passo con il primato che il nostro Paese vanta in termini di consumo pro-capite di acqua in bottiglia, pari a 206 litri annui. Una cifra che posiziona l'Italia al primo posto in Europa, e al secondo posto nel mondo dopo il Messico.

Gli italiani insomma consumano molto, ma le Regioni non sembrano interessate a passare all'incasso. Il rapporto mette in fila i dati per singole regioni, sottolineando gli enormi squilibri che permangono tra le diverse aree del Paese. In Abruzzo ad esempio i canoni sono di 0,3 millesimi di euro al litro, per un incasso complessivo di 167 mila euro a fronte di 557 milioni di litri imbottigliati. La più virtuosa è invece il Lazio, che chiedendo in media 2 millesimi al litro incassa 913 mila euro, sei volte tanto, imbottigliando molto di meno dei vicini abruzzesi, 404 milioni di litri.A incidere sugli squilibri ci sono i diversi criteri adottati: per litri emunti, per litri imbottigliati o per chilometri di concessione. Sorprendentemente, nonostante i miglioramenti rispetto agli anni passati, due regioni - Sardegna e Puglia -  applicano ancora canoni legati esclusivamente alla superficie. Che si prelevi un litro o un milione di litri non fa differenza.
Per superare queste anomalie Legambiente chiede una correzione. "Proponiamo di applicare un canone minimo a livello nazionale di almeno 20 euro al metro cubo, cioè 2 centesimi di euro al litro imbottigliato", spiega Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente. "Un canone comunque irrisorio, ma già dieci volte superiore a quello attuale e che permetterebbe alle Regioni di incrementare gli introiti di almeno 280 milioni di euro l’anno, da reinvestire in politiche e interventi in favore dell’acqua di rubinetto e per la tutela di della risorsa idrica".

Non c'è soltanto un tema di mancati incassi. In Italia- si legge nel rapporto -  "il 90-95% delle acque viene imbottigliato in contenitori di plastica e il 5-10% in contenitori in vetro: in pratica ogni anno vengono utilizzate tra i 7 e gli 8 miliardi di bottiglie di plastica". Il tutto mentre l'Europa si è attivata per spingere i Paesi verso un maggiore utilizzo dell'acqua del rubinetto. L'obiettivo è una riduzione del 17% dei consumi di acqua in bottiglia con un risparmio per le famiglie europee quantificato in 600 milioni di euro.

Resta rilevante infine il tema della dispersione idrica. Il tasso nazionale si attesta al 40,6%, contro una media nazionale del 23%. Su 100 litri immessi quindi, quasi 41 vanno dispersi, con picchi in alcune province come Campobasso, dove il dato raggiunge il 68%. Colpa anche dell'inadeguatezza della rete idrica.  Il 60% degli acquedotti italiani ha un’età superiore a 30 anni, il 24% ha più di 50 anni, e su 350mila chilometri di tubazioni almeno la metà risultano da riparare o sostituire.


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