20 febbraio 2019

Autonomia regionale, un gigantesco equivoco alimentato dalla Lega

Sull’autonomia regionale Lega e 5stelle trasformano il governo Conte-Salvini-DI Maio in una palestra elettorale

di Sergio Chiamparino - Democratica

Come per la Torino-Lione, anche sull’autonomia regionale Lega e 5stelle trasformano il governo Conte-Salvini-DI Maio in una palestra elettorale per raccogliere, ognuno dal suo versante, il massimo di consensi all’appuntamento europeo e amministrativo di maggio.

Nel caso dell’autonomia, lo scontro si gioca su un gigantesco equivoco alimentato da settori della Lega, che fa passare l’applicazione dell’autonomia differenziata come uno strumento per incrementare le risorse trattenute nella regione a scapito delle altre regioni, realizzando una sorta di regione a statuto speciale. Si lascia cioè immaginare che si aggredisce il residuo fiscale – il saldo tra imposte versate allo stato e risorse che tornano in regione – per conquistare spazi di autonomia.

E’ un po’ come il gioco che facevano alcuni monaci del medioevo che, non volendo onorare il venerdì magro, cambiavano il nome del maiale in pesce per potersene cibare. E’ una cosa che non sta assolutamente negli articoli 116 e 119 della Costituzione che vanno letti insieme. Un tema, non dimentichiamolo, introdotto in Costituzione nel 2001 dal centrosinistra con la modifica del titolo V. Il principio deve essere difeso e sostenuto: spostare alcune competenze dal centro alla periferia per andare sui territori e rispondere meglio, con più conoscenza delle realtà locali, ai loro bisogni. Semplificazione e flessibilità nelle risposte sono categorie che valorizzano l’autonomia differenziata, senza trasformare le singole regioni in “repubblichette” isolate l’una dall’altra e tra di loro concorrenti.

Le richieste del Piemonte e di altre regioni sono nel pieno alveo costituzionale e immaginano, in questo quadro, che le risorse trasferite dallo stato siano esattamente le stesse utilizzate dallo stato per le competenze che passano alle regioni. Si tratterebbe di un passaggio di risorse a saldo zero per lo stato, e quindi senza alcuna sottrazione alle altre regioni, che su quel piano non perderanno un solo euro.
Faccio qualche esempio per essere più chiaro, riferito alla mia regione che ha scelto di chiedere maggiori competenze su 12 materie rispetto alle 23 possibili: io incontro spesso imprenditori che lamentano di non riuscire a trovare del personale specializzato per le loro aziende. E’ evidente che tra le nostre richieste c’è quella di poter governare l’istruzione e la formazione professionale, in modo da costruire risposte formative alle reali domande di lavoro che vengono dal tessuto economico.

Lo stesso vale per i beni culturali. Noi abbiamo già una esperienza di governo locale di un museo nazionale, l’Egizio, attraverso una fondazione, che ha dato subito ottimi risultati perché ha permesso di eliminare gran parte delle lungaggini e della burocrazia. Chiediamo il trasferimento di queste competenze, e se con esse verrà trasferito anche il personale addetto, questo porterà dallo stato le risorse necessarie, che però non verranno a quel punto spese dallo stato stesso. Nulla verrà dunque tolto alle altre regioni.

E’ su questo che il governo, se non fosse accecato da logiche e interessi puramente elettorali, dovrebbe cimentarsi: quali competenze trasferire senza che ciò pregiudichi né le risorse disponibili, né l’unitarietà e l’indivisibilità dello stato. Ad esempio, un conto è chiedere più flessibilità per la gestione di alcuni beni culturali, altro è chiedere il trasferimento della titolarità dell’intero patrimonio culturale in regione. Un conto è trasferire la gestione dell’intero comparto scolastico, altro è permettere una programmazione territoriale che consenta di rispondere meglio ai bisogni formativi territoriali.
E’ su questo, e non su altro, che il governo e il Parlamento devono decidere.

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