5 gennaio 2013

Crisi e rincari di quel che un tempo costava poco. Di Giancarlo Saccoman.


Sulla scia di una precedente tendenza alla crescita dei prezzi dei minerali estrattivi, a partire dal secondo trimestre del 2010 anche quelli delle materie prime agricole ed energetiche hanno iniziato a salire in modo forte e sostanzialmente costante, determinando un aumento dell’indice generale dei prezzi nel quadro dell’economia mondiale. In presenza di una stagnazione “media” delle economie dei paesi sviluppati (del centro capitalistico), questo delinea una situazione di “stagflazione” (di stagnazione più inflazione).






Il quadro globale

Questo movimento ascendente dei prezzi non consiste in un’oscillazione congiunturale (come pure è tipico dei mercati delle materie prime), ma in una tendenza strutturale e perciò di lungo periodo, tale da mutare stabilmente la fisionomia del mondo nel prossimo futuro. Infatti, dopo un lunghissimo periodo (poco meno di un secolo e mezzo) in cui le ragioni di scambio hanno favorito i prodotti intermedi e finali rispetto alle materie prime, da circa quindici anni esse appaiono nettamente rovesciate, e questo a seguito del grande cambiamento degli equilibri economici e geopolitici intervenuti a livello mondiale e riassumibili nel declino del centro capitalistico (Nordamerica, Europa occidentale, Giappone). Questo cambiamento sta premiando l’area asiatica e altre grandi aree della periferia capitalistica tramite una rapida e continua crescita economica: che si traduce in crescita della domanda di materie prime a un ritmo assai più elevato rispetto all’aumento dell’offerta, donde una tendenza appunto al rialzo dei loro prezzi.


Si badi: questa richiesta non riflette solo le necessità tecniche della crescita economica di queste aree: quest’ultima, portando a una crescita del tenore di vita di centinaia di milioni di esseri umani, ha anche generato un mutamento dei consumi, sia alimentari che di beni durevoli, e degli stili di vita, che si stanno avvicinando alle situazioni del centro capitalistico. Inoltre a questo vanno aggiunti rarefazione o contingentamento di alcune materie prime da parte di paesi produttori. Quindi la crescita economica della periferia capitalistica ha un effetto “moltiplicato” sui prezzi delle materie prime.
 
La Cina ha assunto un ruolo determinante nella lotta, che da tutto questo consegue, per il controllo soprattutto  delle risorse energetiche, alimentari e di quelle materie prime di base di interesse strategico per lo sviluppo futuro nel campo delle alte tecnologie. Per alcune di queste (le “terre rare”) essa è fra i primi produttori e consumatori mondiali, quindi in grado di deciderne i prezzi (alla borsa di Shanghai).

L’economia cinese ha svolto dal 2009 un ruolo cruciale nella crescita della domanda di materie prime. Essa potrebbe prossimamente rallentare l’incremento della sua domanda, a causa delle nuove politiche monetarie restrittive decise dalle autorità di governo per sgonfiare la bolla immobiliare e frenare le forti spinte inflative. Ciò tuttavia non invertirà la tendenza di fondo al rincaro: l’economia è in crescita rapida in quasi tutta la periferia capitalistica. Inoltre quell’effetto moltiplicatore che si è detto continuerà al allargare la sua base portante.


Rialzo dei prezzi e al tempo stesso volatilità dei mercati delle materie prime

Il rialzo dei prezzi è, tecnicamente, l’effetto del notevole ritardo nell’adeguamento della produzione alla domanda. Occorrono tempi assai lunghi (anche di dieci-quindici anni) per attivare nuove miniere e raffinerie o per  riattivare quelle chiuse perché divenute antieconomiche a seguito delle passate flessioni o stagnazioni a basso livello dei prezzi. Per le produzioni agricole i tempi di adeguamento della produzione sono a loro volta legati alla riconversione delle colture e degli impianti di trasformazione.

Parimenti il rialzo dei prezzi determina una riduzione della domanda di alternative tecnologiche nonché di risparmio energetico e dei materiali, causando periodicamente cadute di prezzi che la speculazione amplifica in crolli, portando alla dismissione degli impianti che producono a costi più elevati. Ciò fa rialzare i prezzi, e il loro ciclo ricomincia (è soprattutto per evitare tali sbalzi, stabilizzare i prezzi e smorzarne le oscillazioni che sono nate le organizzazioni dei venditori, come l’OPEC, e quelle dei compratori, e sono state costituite scorte strategiche dalle grandi imprese e dagli stati).

Le oscillazioni significative dei prezzi sono soprattutto di breve periodo. Essi sono fortemente influenzati dai mercati speculativi dei “prodotti derivati”, che contribuiscono a dilatare le minioscillazioni in modo esponenziale. L’enorme mole di capitale finanziario liquido, gestito prevalentemente da fondi di investimento (anche pensione) e dalle grandi banche d’affari, soprattutto statunitensi, viene investita in “derivati” riguardanti le mercati delle varie materie prime (oltre che cambi tra le valute e debiti sovrani), che a causa della loro instabilità consentono forti guadagni attraverso hedge funds ovvero scommesse sugli andamenti futuri. Anche le guerre valutarie in corso generano un’ulteriore grado di incertezza: un eventuale indebolimento del dollaro favorirebbe il rialzo dei prezzi delle materie prime, mentre un suo rafforzamento le renderebbe più costose per gli acquirenti in altre valute.


La situazione dei minerali estrattivi

Secondo i dati del Parlamento Europeo nell’ultimo decennio il mercato globale dei minerali estrattivi ha registrato la maggiore esplosione dei prezzi dalla seconda guerra mondiale. Ciò risulta dovuto a una rapidissima crescita economica della periferia capitalistica, che ha fatto esplodere la richiesta, soprattutto da parte di Cina e India, di numerose materie prime, poiché ci vuole tempo ad adeguare il livello della produzione o semplicemente poiché questo non è possibile. L’Unione Europea ha redatto un elenco di 41 minerali critici la cui scarsità produrrà pesanti conseguenze economiche, e ha previsto per alcuni di essi gli anni di residua disponibilità. La scarsità o l’indisponibilità  di 14 di questi minerali causerà anzi crisi dell’economia mondiale dalle enormi conseguenze sociali: molti minerali, come platino, mercurio, gallio e terre rare, sono infatti indispensabili per le tecnologie alternative in campo energetico. Se si estenderà la produzione di auto elettriche anche il litio, necessario per le batterie, potrebbe diventare rapidamente insufficiente.

La distribuzione geografica di alcuni minerali è fortemente localizzata in pochi paesi, dando luogo a situazioni di oligopolio o, anche, di monopolio che consentono di aumentarne il prezzo o di operare un contingentamento delle esportazioni, al fine di controllare direttamente il connesso ciclo produttivo fino ai prodotti intermedi o anche finali. Ciò determina un rischio strategico per i paesi utilizzatori, poiché li espone a un’eccessiva dipendenza dalle scelte, dalle pretese o dalle crisi politiche altrui.

I rimedi possibili sono di varia natura: la prospezione geologica di territori ancora poco esplorati, la coltivazione di giacimenti finora poco sfruttati perché presentano elevati costi di estrazione, l’adozione di produzioni a minor consumo di questi minerali, la ricerca di materiali sostitutivi più abbondanti o di tecnologie alternative, il riciclo, l’eliminazione degli sprechi e dei consumi non necessari. Tuttavia se per alcuni minerali è possibile una superiore estrazione a costi più elevati, o è possibile sostituirli  grazie a tecnologie alternative, per altri oggi non esistono alternative.

I territori che conservano maggiori risorse, non ancora sfruttate per difficoltà ambientali, politiche o mancanza di infrastrutture, sono Afghanistan (sulla base dei rapporti geologici del Ministero della Difesa statunitense ci sono rame, litio, cobalto, oro, ferro, ecc.), Groenlandia, paesi andini (litio), Amazzonia, Nuova Guinea, Antartide e molti altri. C’è poi una quantità di territori del tutto inesplorati. Il riciclo viene attualmente utilizzato nell’industria riguardo a numerosi materiali e metalli: grafite 72%, alluminio 49%, oro 43%, nichel 35%, rame 31%, zinco 26%, argento 16%, ma anche piombo e ferro. Il litio delle batterie non viene consumato e può essere interamente riciclato. Ma solo il miglioramento delle tecniche di recupero può far sperare, in solido allo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica e a politiche di risparmio, in una soluzione positiva del problema.

  
La situazione di metalli preziosi e terre rare

La crisi ha spinto alla ricerca di beni rifugio, che non garantiscono alcuna rendita ma solo guadagni di capitale o almeno la conservazione del suo valore, come, oltre al “mattone”, gioielli, opere d’arte, pietre preziose e, soprattutto, monete auree e metalli preziosi, il cui valore è facilmente determinabile. La corsa all’oro sembra ormai inarrestabile: dai 200 dollari l’oncia nel 1975 dovrebbe raggiungere i 1.600 dollari a fine 2011. Anche le banche centrali sono tornate a comprarlo, rifiutando le indicazioni di vendita del Fondo Monetario Internazionale. Parimenti la Cina sta moltiplicandone rapidamente gli acquisti, inoltre ha lanciato il suo primo fondo speculativo sull’oro, aperto anche ai suoi piccoli risparmiatori. Cresce moltissimo pure il prezzo di argento (+100,3% in un anno), platino e palladio, che hanno anche un importante uso industriale, inoltre i diamanti vedono una fortissima crescita della domanda indiana e cinese, a fronte di un graduale esaurimento delle estrazioni.

Il prezzo delle terre rare, definite  i “metalli dell’high-tech e delle tecnologie verdi”, sta diventando più elevato di quello dei metalli preziosi. Si tratta di 17 elementi  insostituibili per tutte le moderne tecnologie di avanguardia, cruciali per lo sviluppo economico e  sociale, indispensabili in innumerevoli applicazioni civili, belliche e ambientali.


Cina e materie prime minerarie

Proprio il lungo periodo della straordinaria crescita cinese ha fatto esplodere la richiesta di numerose materie prime. In Cina il consumo procapite di energia è cresciuto del 50%, e questa crescita è responsabile di metà della crescita globale della domanda.

Nello scontro per l’egemonia con gli Stati Uniti la Cina, dopo essersi affermata come principale finanziatrice del debito statunitense, vuole affermare il suo primato nelle produzioni ad alto valore aggiunto. “Le terre rare saranno il nostro petrolio”, aveva affermato Deng Xiaoping; e la Cina, contingentandone progressivamente l’esportazione con l’obiettivo di arrivare a vietarla dal 2015, mentre la domanda mondiale sta crescendo dell’8% annuo, ha proposto alle multinazionali che usano questi minerali di andare a produrre in Cina costituendovi imprese miste e rendendo ovviamente disponibili i loro brevetti in fatto di tecnologie d’avanguardia. Ove ciò avvenisse, le attuali economie capitalistiche sviluppate diverrebbero unicamente grandi catene distributive, subordinate alle scelte di politica economica dei paesi produttori a bassi costi di produzione. D’altra parte già oggi nessuna grande multinazionale può fabbricare i propri prodotti d’avanguardia senza rifornirsi in Cina (fra le moltissime ci stanno Apple, BASF, Canon, General Dynamics, GeneraI Electric, Hewlett Packard, Lockheed Martin, Nokia, Northrop Grumman, Philips, Siemens, Sony, Toyota). Gli approvvigionamenti alternativi (per esempio in Australia), a loro volta, di più difficile estrazione, non saranno disponibili prima di molti anni e in quantità molto scarse, riguardando giacimenti che presentano un tenore dei minerali assolutamente inferiore.

Ciò ha gettato nel panico l’industria hi-tech mondiale, scatenato gli appetiti degli speculatori, fatto quindi crescere, secondo il Financial Times, una nuova pericolosa bolla speculativa nei mercati finanziari.

Oltre alle terre rare la scarsità riguarda materie prime di cui sempre la Cina detiene una larga parte delle risorse mondiali. Negli anni scorsi essa aveva limitato, con dazi e contingentamenti, anche l’esportazione di fosforo e di coke metallurgico, di cui è il principale produttore mondiale (è anche il terzo produttore di litio e il quarto di potassio). Essa inoltre partecipa, con la sua enorme disponibilità di riserve valutarie, alla campagna mondiale per il controllo delle risorse minerarie (oltre che energetiche ed agricole) del pianeta nel loro complesso.

Nello scontro che concretamente oppone la Cina al centro capitalistico, concentrato soprattutto sul Pacifico, l’Unione Europea è irrilevante, sembrando rassegnata a un ruolo subalterno rispetto alle altrui iniziative. Ma anche quest’atteggiamento rischia di innescare un periodo di instabilità economica a opera della speculazione.


La situazione delle risorse energetiche

E’ probabile, proprio a causa dello squilibrio fra domanda e offerta, che, al di là delle tensioni speculative derivanti dai problemi di stabilità dei paesi produttori, vi sarà un forte rincaro dei prezzi degli idrocarburi: la cui domanda è in forte aumento soprattutto perché in Cina il consumo pro-capite di energia è cresciuto del 50% (la crescita del consumo cinese è responsabile di metà della crescita della domanda globale di idrocarburi). Non solo: secondo le stime la domanda globale dovrebbe raddoppiare in dieci anni, e questo a fronte di una riduzione tendenziale dell’offerta. Inoltre per la prima volta nella storia non esiste un modello già pronto di transizione energetica.

Parimenti la fruizione eccessiva dei combustibili fossili già da tempo determina rilevanti cambiamenti climatici (si cerca di contenere questi cambiamenti attraverso il “sequestro” dell’anidride carbonica, stoccandola in siti geologicamente sicuri: quanto effettivamente sicuri, nel lungo periodo?). Il riscaldamento climatico sta anche liberando nell’atmosfera volumi enormi di metano, prigioniero di ghiacci e territori il cui suolo è gelato: e il metano dispone di un effetto serra di oltre venti volte più efficace di quello dell’anidride carbonica. La fissione nucleare, a sua volta, starebbe secondo i suoi sostenitori risolvendo il problema della sicurezza degli impianti, con le sue nuove centrali a sicurezza “intrinseca”. Ma a parte il fatto che molti ricercatori dubitano dell’effettività di questa sicurezza, il disastro delle centrali giapponesi ci dice che nessun impianto è in grado di resistere ai fenomeni estremi della natura; inoltre le centrali producono scorie radioattive della durata di centinaia di migliaia di anni, ciò che propone il problema dell’effettiva sicurezza del loro stoccaggio; ancora, neanche la disponibilità di materiale fissile è eterna. Le energie alternative, secondo la maggior parte degli esperti, potranno coprire solo una parte della domanda, tanto più che nel 2050 potrebbe essere doppia rispetto all’attuale. Ancora, parte dei biocarburanti contribuisce alla crisi alimentare, l’idrogeno non è una fonte energetica ma solo un vettore energetico, garantisce certo aria pulita alle città ma aumenta l’inquinamento alla fonte di produzione; e la fusione nucleare pulita, che risolverebbe il problema, resta molto lontana, anzi non è detto che risulterà realizzabile.

Il problema può essere affrontato solo con una pluralità di strumenti e, soprattutto, attraverso la riduzione dell’impatto energetico di produzione e consumi. Gli statunitensi Mark Jacobson e Mark Delucchi, dell’Università di Stanford, hanno elaborato un progetto di riconversione integrale alle energie rinnovabili entro il 2030, eliminando quindi i combustibili fossili, con il ricorso a 3,8 milioni di grandi turbine eoliche, 90 mila impianti solari e una certa quantità di installazioni geotermiche, mareomotrici e fotovoltaiche, con un costo di generazione e trasmissione dell’elettricità inferiore al costo dei combustibili fossili e nucleare. Ma ci sono di mezzo fortissimi ostacoli politici, inoltre vale ancora la scarsità di alcuni materiali indispensabili (terre rare). I recenti annunci di un nuovo metodo di produzione di idrogeno a basso impatto ambientale e quello, proveniente dalla Cina, di un processo di rifertilizzazione del materiale fissile esaurito delle centrali nucleari, che ne moltiplicherebbe per centinaia di anni la durata produttiva, riducendo nel contempo il problema delle scorie e della disponibilità di combustibile (ma certo non quello della sicurezza degli impianti) costituirebbero novità molto importanti nel senso di prendere tempo per la ricerca e l’applicazione operativa in sede di fonti alternative rinnovabili e a basso impatto ambientale: ma occorrerebbe intanto verificarne la veridicità. 


La situazione delle risorse alimentari

I tre più importanti cereali della storia, grano, riso e mais, hanno costituito la base fondamentale dell’alimentazione, rispettivamente in Europa, Asia e America, e continuano a esserlo oggi. Il loro prezzo è aumentato mediamente del 70% in un anno e aumenterà ancor più nel prossimo futuro, minacciando le condizioni di vita e la vita stessa di centinaia di milioni di persone.

La produzione cerealicola del 2010 è stata compromessa dal forte deterioramento delle condizioni climatiche, connesse alla presenza di un fenomeno meteorologico, la Niña, che provoca catastrofi climatiche e situazioni estreme, come siccità, caldo torrido, incendi, gelate, uragani, alluvioni, inondazioni, che hanno colpito importanti regioni produttrici ed esportatrici, con effetti disastrosi per i raccolti agricoli. Sono stati pesantemente colpiti Stati Uniti, Sudamerica, Russia, Ucraina, Asia centrale, India, Pakistan, Afghanistan, Sudest asiatico, Australia ma anche Europa centro-orientale, Scandinavia, Francia. Nessuno è in grado di dire quanto questa crescente violenza meteorologica e climatica abbia dipeso da fenomeni ricorrenti e quanto da cambiamenti climatici stabili. Questi ultimi in ogni caso sono ormai una palese realtà. Inoltre il calo di 41 miliardi di tonnellate nella produzione di grano e di quasi un terzo di quella di soia ha spostato la domanda su altri alimenti base come il riso e l’orzo, ampliando il rincaro del complesso degli alimenti e riducendone le riserve mondiali. Si aggiungano a ciò malattie come la “peste delle banane” di tipo Cavendish (sono il 90% della produzione mondiale), le cui piante sono state colpite mortalmente da un fungo a cui non è stato finora trovato rimedio.

Oltre a risultare dai disastri climatici la crisi alimentare risulta da dati strutturali duraturi, legati essi pure alla crescente divaricazione fra domanda e offerta. L’aumento della domanda internazionale di prodotti alimentari ha un duplice fattore: la crescita demografica mondiale di circa 70 milioni di persone l’anno, più della popolazione italiana, e la crescita dei redditi dei paesi emergenti, soprattutto asiatici, e in particolare di quelli, come Cina e India, caratterizzati da enormi popolazioni (messe assieme fanno oltre due miliardi e mezzo di individui), ciò che vi determina un cambiamento degli stili alimentari tradizionali, passati da riso e verdura a carne e pane. Dato che per ottenere 100 calorie di carne ne occorrono 700 di mangimi, ciò ha comportato un aumento enorme del consumo di soia e di granaglie per mangimi, in particolare del mais.

La Cina importa il 75% del totale di semi di soia, un milione di tonnellate alla settimana, e un grande quantitativo di mais, ma è l’India l’importatore alimentare globale. Indonesia e Bangladesh stanno importando grandi quantità di riso. L’incremento della domanda spinge verso una maggiore produttività per ettaro e questo a sua volta rincara i fertilizzanti. Inoltre l’aumento del prezzo di soia e cereali porta all’aumento dei costi dell’allevamento e quindi di carne, uova, latte e loro derivati (al tempo stesso, secondo la FAO, il 25% del cibo prodotto nel mondo, per un valore di 458 miliardi di dollari l’anno, viene sprecato).

L’offerta alimentare tende inoltre non solo a non crescere adeguatamente ma per molte sue voci a calare. Le cause sono molte. I mutamenti climatici hanno ridotto la produzione. Risulta sempre più difficile aumentare la produzione alimentare perché paesi come India, Cina e Stati Uniti, i maggiori produttori di grano, l’hanno forzata supersfruttando le falde idriche sotterranee e queste sono giunte al limite delle loro capacità o stanno esaurendosi. Inoltre le aree coltivate sono state ridotte: la politica agricola dell’Unione Europea ha finanziato la  riduzione delle superfici coltivate e contingentato la produzione di carne e di latticini e l’espansione planetaria delle aree urbane, delle attività industriali e delle infrastrutture viarie e ferroviarie ha sottratto terreno. Ancora, l’estensione crescente delle coltivazioni destinate alla produzione di biocarburanti (etanolo), sussidiata dal governo statunitense e da quello brasiliano, sottrae spazio essa pure alla produzione alimentare. Un terzo della produzione di mais negli Stati Uniti è destinata alla produzione di mais per biocarburanti, anche se, a differenza della canna da zucchero in Brasile, l’efficienza energetica del mais è negativa (l’energia ottenuta è assai inferiore a quella impiegata per la coltivazione).

Infine il rincaro del petrolio si trasmette immediatamente ai prezzi agricoli, poiché la filiera agricola è molto energivora. Tuttavia l’aumento dei prezzi agricoli è eccessivo, dipendendo soprattutto dalla speculazione, che punta  sull’“agbull market”, ovvero sul “toro” dell’agricoltura. “Siamo nel pieno di un turbomercato del “toro agricolo” basato sulla domanda dei mercati emergenti, che sta creando una potenziale carenza di cibo a livello mondiale”, ha dichiarato Jim Cramer, discusso fondatore di un hedge fund.


L’agflazione

L’“agflazione”, termine coniato dagli analisti di Merryl Linch per descrivere la forte crescita dei prezzi dei generi alimentari (su cui questa banca d’affari specula alla grande) è un fenomeno globale in forte accelerazione e che negli ultimi anni che ha raggiunto livelli vertiginosi.

La FAO ha creato nel 1990 il Food Price Index, cioè un indice che rileva l’andamento dei prezzi di 55 prodotti alimentari di largo consumo (tra i quali grano, mais, riso, semi oleosi, latticini, zucchero, carne). Quest’indice ha raggiunto nel giugno 2008 il picco di 213,5 punti (rispetto ai 100 iniziali), che inoltre risulta ampiamente superato a gennaio 2011, raggiungendo quota 236, la crescita maggiore mai registrata dal suo varo. Secondo la FAO “nel giro di un anno i prezzi delle materie prime alimentari sono, in media, più che raddoppiati e sarebbe folle pensare che questo sia il picco” conclusivo: quindi dobbiamo attenderci ulteriori consistenti aumenti, anche per effetto di un nuovo rialzo del prezzo del petrolio. Negli Stati Uniti il prezzo del grano è cresciuto del 60% in un anno. Secondo Federalimentari i prezzi delle materie prime alimentari hanno registrato in Italia una crescita del 44,4% in un anno, ed essa è destinata a continuare, prevedendosi un aumento dei derivati del grano (pane, pasta) del 30% nel corso di quest’anno. Secondo Lester Brown, direttore del Earth Policy Institute di Washington, i prezzi continueranno a salire, ma se ci sarà un cattivo raccolto anche nel 2011, l’aumento avverrà in termini tali da configurare un disastro, poiché ci sarà l’esaurimento delle scorte strategiche, usate per far fronte alle crisi. “Solo un cattivo raccolto”, ha detto, “separa il mondo dal caos”.

Il mercato alimentare è sempre più mondializzato. Secondo la FAO il bilancio mondiale delle importazioni alimentari toccherà un nuovo record nel 2011, dopo aver superato quei 1.000 miliardi di dollari nel 2010 che già hanno rappresentato una crescita del 15% rispetto al 2009. L’esportazione è concentrata in pochi paesi: Stati Uniti (70% del granturco e 30% della soia), Brasile (60% dello zucchero). Alcuni paesi invece, come Russia e Ucraina, hanno vietato o contingentato l’esportazione di cereali.

Quella attuale è la terza grande crisi alimentare in pochi decenni e la seconda nell’arco di un triennio, e potrà solo aggravarsi, dato il concomitante aumento del prezzo del petrolio. Nel 1973-74 la crisi del riso causò la morte di oltre un milione di persone solo in Sri Lanka e Bangladesh, mentre nel 1977-78 l’aumento del prezzo del petrolio ha provocato carestie e rivolte del pane in una cinquantina di paesi della periferia capitalistica. Quella attuale è la causa scatenante della rivolta di popolo in Nordafrica e Medio Oriente.

A fare le spese di tutto questo sono ovviamente le popolazioni o le loro quote più povere, specie nella periferia, dove i prezzi sono ormai troppo alti per una notevole parte delle popolazioni. Il numero degli affamati supererà nel mondo il miliardo, secondo molti studi, si moltiplicheranno carestie e “rivolte del pane”, raddoppierà il numero di quanti (oggi un miliardo) vivono con meno di un dollaro al giorno e devono spendere l’80% del loro reddito per l’alimentazione. Gli obiettivi, già problematici, fissati dall’ONU contro la povertà e la fame diverranno assolutamente irrealizzabili, si avrà piuttosto il contrario. I paesi più a rischio sono gli 82 paesi poveri importatori netti di alimentari e particolarmente i 22 paesi che sono nel contempo importatori energetici, innanzitutto Haiti e il Bangladesh, che avranno gravissime difficoltà di approvvigionamento.

L’agflazione comporterà anche un profondo mutamento delle abitudini alimentari. “Nel futuro ci sarà meno pasta, pane, carne, uova, latte, formaggio; proteine e carboidrati dovremo cercarli in patate, fagioli, lenticchie, ma ci costeranno più di oggi” (Maurizio Ricci, la Repubblica, 4 febbraio 2010). Non sempre questo farà bene alla salute.


Il neocolonialismo alimentare

I paesi che dispongono di ingenti riserve valutarie, concentrate nei loro fondi sovrani, come i paesi petroliferi del Golfo e la Cina, sono entrati in quello che Jacques Diouf, Direttore Generale della FAO, ha definito il “neo-colonialismo agricolo” e il giornalista economico Federico Fubini “la terza fase della globalizzazione”, con l’acquisto di terre all’estero che, in pochi anni, può portare a coprire circa un quinto della produzione mondiale delle principali derrate alimentari.

Il paese più attivo in questa sede è l’Arabia Saudita, che ha investito a tal fine miliardi di dollari in Etiopia, Indonesia, Pakistan e Filippine. Il Kuwait ha acquistato intere province agricole della Cambogia e allevamenti estensivi di pollame nello Yemen. A sua volta la Cina ha acquistato vasti territori agricoli in Camerun, Congo-Brazzaville, Tanzania, Uganda, Zimbabwe per i cereali, in Mozambico per il riso, inoltre in Filippine, Laos, Kazakhstan, Nigeria e molti altri paesi, suscitando anche rivolte fra i contadini locali. “Paesi in preda alla malnutrizione, come il Sudan e l’Etiopia, sono diventati grandi esportatori di derrate di cui hanno perso il controllo. Le nuove potenze coloniali vogliono assicurarsi l’approvvigionamento diretto di cibo senza dover passare dai mercati globali”, quindi esserne rapinate (Roberto Bongiorno, Il Sole 24 ore, 27 gennaio 2011).


Quali rimedi?

L’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari potrà essere contrastato stabilmente solo operando su più piani. Innanzitutto occorre praticare un aumento della produzione agricola attraverso una maggiore estensione delle colture a scopo alimentare. La Commissione Europea ha finalmente deciso di non far valere quest’anno l’obbligo di tenere a riposo il 10% delle terre coltivabili (250 mila ettari in Italia). Occorre limitare la produzione di biocarburanti, limitandola alle sole terre marginali, inadatte alla produzione agricola, ed eliminando gli attuali incentivi negli altri casi. Occorre procedere subito, senza aspettare la scadenza del 2015, alla riforma della politica agricola dell’Unione Europea, le cui quote produttive sono servite a tenere alti i prezzi e quindi i redditi dell’impresa agraria di tipo capitalistico, riducendo l’offerta potenziale, cosa sempre più assurda in presenza di una carenza di offerta e di prezzi internazionali crescenti. Occorre poi ridurre la lunghezza della filiera alimentare, favorendo la distribuzione diretta e sostenendo economicamente i consumatori più indigenti. E’ poi necessario costituire riserve mondiali alimentari di dimensioni adeguate a garantire una copertura sufficiente in caso di carenze prolungate e carestie.
  
E’ anche indispensabile limitare la speculazione dei prodotti derivati “nudi”, privi di un sottostante reale, che contribuiscono a moltiplicare la dinamica ascendente dei prezzi: ma se ciò oggi è possibile negli Stati Uniti, grazie a una recente riforma finanziaria, a Londra non esistono leggi analoghe e il governo britannico si è dichiarato contrario a porre limiti sulla negoziazione di questi derivati, inoltre l’Unione Europea non ha tuttora assunto alcuna decisione in merito.

Guardando al medio-lungo periodo, va posto anche il problema, soprattutto nel centro capitalistico, di una buona educazione alimentare, orientata a un modo di cibarsi più sano e nel contempo più sostenibile dal punto di vista ambientale, e questo anche allo scopo di contribuire a prevenire carestie e tragedie a danno dei miliardi di poveri del mondo.

Nessun commento:

Posta un commento