Sulla scia di una precedente tendenza alla
crescita dei prezzi dei minerali estrattivi, a partire dal secondo trimestre
del 2010 anche quelli delle materie prime agricole ed energetiche hanno
iniziato a salire in modo forte e sostanzialmente costante, determinando un
aumento dell’indice generale dei prezzi nel quadro dell’economia mondiale. In
presenza di una stagnazione “media” delle economie dei paesi sviluppati (del
centro capitalistico), questo delinea una situazione di “stagflazione” (di
stagnazione più inflazione).
Il quadro globale
Questo
movimento ascendente dei prezzi non consiste in un’oscillazione congiunturale
(come pure è tipico dei mercati delle materie prime), ma in una tendenza
strutturale e perciò di lungo periodo, tale da mutare stabilmente la fisionomia
del mondo nel prossimo futuro. Infatti, dopo un lunghissimo periodo (poco meno
di un secolo e mezzo) in cui le ragioni di scambio hanno favorito i prodotti
intermedi e finali rispetto alle materie prime, da circa quindici anni esse
appaiono nettamente rovesciate, e questo a seguito del grande cambiamento degli
equilibri economici e geopolitici intervenuti a livello mondiale e riassumibili
nel declino del centro capitalistico (Nordamerica, Europa occidentale,
Giappone). Questo cambiamento sta premiando l’area asiatica e altre grandi aree
della periferia capitalistica tramite una rapida e continua crescita economica:
che si traduce in crescita della domanda di materie prime a un ritmo assai più
elevato rispetto all’aumento dell’offerta, donde una tendenza appunto al rialzo
dei loro prezzi.
Si badi:
questa richiesta non riflette solo le necessità tecniche della crescita
economica di queste aree: quest’ultima, portando a una crescita del tenore di
vita di centinaia di milioni di esseri umani, ha anche generato un mutamento
dei consumi, sia alimentari che di beni durevoli, e degli stili di vita, che si
stanno avvicinando alle situazioni del centro capitalistico. Inoltre a questo
vanno aggiunti rarefazione o contingentamento di alcune materie prime da parte
di paesi produttori. Quindi la crescita economica della periferia capitalistica
ha un effetto “moltiplicato” sui prezzi delle materie prime.
La Cina ha
assunto un ruolo determinante nella lotta, che da tutto questo consegue, per il
controllo soprattutto delle risorse
energetiche, alimentari e di quelle materie prime di base di interesse
strategico per lo sviluppo futuro nel campo delle alte tecnologie. Per alcune
di queste (le “terre rare”) essa è fra i primi produttori e consumatori
mondiali, quindi in grado di deciderne i prezzi (alla borsa di Shanghai).
L’economia
cinese ha svolto dal 2009 un ruolo cruciale nella crescita della domanda di
materie prime. Essa potrebbe prossimamente rallentare l’incremento della sua
domanda, a causa delle nuove politiche monetarie restrittive decise dalle
autorità di governo per sgonfiare la bolla immobiliare e frenare le forti
spinte inflative. Ciò tuttavia non invertirà la tendenza di fondo al rincaro:
l’economia è in crescita rapida in quasi tutta la periferia capitalistica.
Inoltre quell’effetto moltiplicatore che si è detto continuerà al allargare la
sua base portante.
Rialzo dei prezzi e al tempo stesso volatilità
dei mercati delle materie prime
Il rialzo
dei prezzi è, tecnicamente, l’effetto del notevole ritardo nell’adeguamento
della produzione alla domanda. Occorrono tempi assai lunghi (anche di
dieci-quindici anni) per attivare nuove miniere e raffinerie o per riattivare quelle chiuse perché divenute
antieconomiche a seguito delle passate flessioni o stagnazioni a basso livello
dei prezzi. Per le produzioni agricole i tempi di adeguamento della produzione
sono a loro volta legati alla riconversione delle colture e degli impianti di
trasformazione.
Parimenti
il rialzo dei prezzi determina una riduzione della domanda di alternative
tecnologiche nonché di risparmio energetico e dei materiali, causando
periodicamente cadute di prezzi che la speculazione amplifica in crolli,
portando alla dismissione degli impianti che producono a costi più elevati. Ciò
fa rialzare i prezzi, e il loro ciclo ricomincia (è soprattutto per evitare
tali sbalzi, stabilizzare i prezzi e smorzarne le oscillazioni che sono nate le
organizzazioni dei venditori, come l’OPEC, e quelle dei compratori, e sono
state costituite scorte strategiche dalle grandi imprese e dagli stati).
Le
oscillazioni significative dei prezzi sono soprattutto di breve periodo. Essi
sono fortemente influenzati dai mercati speculativi dei “prodotti derivati”,
che contribuiscono a dilatare le minioscillazioni in modo esponenziale.
L’enorme mole di capitale finanziario liquido, gestito prevalentemente da fondi
di investimento (anche pensione) e dalle grandi banche d’affari, soprattutto statunitensi,
viene investita in “derivati” riguardanti le mercati delle varie materie prime
(oltre che cambi tra le valute e debiti sovrani), che a causa della loro
instabilità consentono forti guadagni attraverso hedge funds ovvero scommesse sugli andamenti futuri. Anche le
guerre valutarie in corso generano un’ulteriore grado di incertezza: un
eventuale indebolimento del dollaro favorirebbe il rialzo dei prezzi delle
materie prime, mentre un suo rafforzamento le renderebbe più costose per gli
acquirenti in altre valute.
La situazione dei minerali estrattivi
Secondo i
dati del Parlamento Europeo nell’ultimo decennio il mercato globale dei
minerali estrattivi ha registrato la maggiore esplosione dei prezzi dalla
seconda guerra mondiale. Ciò risulta dovuto a una rapidissima crescita
economica della periferia capitalistica, che ha fatto esplodere la richiesta,
soprattutto da parte di Cina e India, di numerose materie prime, poiché ci
vuole tempo ad adeguare il livello della produzione o semplicemente poiché questo
non è possibile. L’Unione Europea ha redatto un elenco di 41 minerali critici
la cui scarsità produrrà pesanti conseguenze economiche, e ha previsto per
alcuni di essi gli anni di residua disponibilità. La scarsità o
l’indisponibilità di 14 di questi
minerali causerà anzi crisi dell’economia mondiale dalle enormi conseguenze
sociali: molti minerali, come platino, mercurio, gallio e terre rare, sono
infatti indispensabili per le tecnologie alternative in campo energetico. Se si
estenderà la produzione di auto elettriche anche il litio, necessario per le
batterie, potrebbe diventare rapidamente insufficiente.
La
distribuzione geografica di alcuni minerali è fortemente localizzata in pochi
paesi, dando luogo a situazioni di oligopolio o, anche, di monopolio che
consentono di aumentarne il prezzo o di operare un contingentamento delle
esportazioni, al fine di controllare direttamente il connesso ciclo produttivo
fino ai prodotti intermedi o anche finali. Ciò determina un rischio strategico
per i paesi utilizzatori, poiché li espone a un’eccessiva dipendenza dalle
scelte, dalle pretese o dalle crisi politiche altrui.
I rimedi
possibili sono di varia natura: la prospezione geologica di territori ancora
poco esplorati, la coltivazione di giacimenti finora poco sfruttati perché
presentano elevati costi di estrazione, l’adozione di produzioni a minor
consumo di questi minerali, la ricerca di materiali sostitutivi più abbondanti
o di tecnologie alternative, il riciclo, l’eliminazione degli sprechi e dei
consumi non necessari. Tuttavia se per alcuni minerali è possibile una
superiore estrazione a costi più elevati, o è possibile sostituirli grazie a tecnologie alternative, per altri
oggi non esistono alternative.
I territori
che conservano maggiori risorse, non ancora sfruttate per difficoltà
ambientali, politiche o mancanza di infrastrutture, sono Afghanistan (sulla
base dei rapporti geologici del Ministero della Difesa statunitense ci sono
rame, litio, cobalto, oro, ferro, ecc.), Groenlandia, paesi andini (litio),
Amazzonia, Nuova Guinea, Antartide e molti altri. C’è poi una quantità di
territori del tutto inesplorati. Il riciclo viene attualmente utilizzato
nell’industria riguardo a numerosi materiali e metalli: grafite 72%, alluminio
49%, oro 43%, nichel 35%, rame 31%, zinco 26%, argento 16%, ma anche piombo e
ferro. Il litio delle batterie non viene consumato e può essere interamente
riciclato. Ma solo il miglioramento delle tecniche di recupero può far sperare,
in solido allo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica e a politiche
di risparmio, in una soluzione positiva del problema.
La situazione di metalli preziosi e terre rare
La crisi ha
spinto alla ricerca di beni rifugio, che non garantiscono alcuna rendita ma
solo guadagni di capitale o almeno la conservazione del suo valore, come, oltre
al “mattone”, gioielli, opere d’arte, pietre preziose e, soprattutto, monete
auree e metalli preziosi, il cui valore è facilmente determinabile. La corsa
all’oro sembra ormai inarrestabile: dai 200 dollari l’oncia nel 1975 dovrebbe
raggiungere i 1.600 dollari a fine 2011. Anche le banche centrali sono tornate
a comprarlo, rifiutando le indicazioni di vendita del Fondo Monetario
Internazionale. Parimenti la Cina sta moltiplicandone rapidamente gli acquisti,
inoltre ha lanciato il suo primo fondo speculativo sull’oro, aperto anche ai
suoi piccoli risparmiatori. Cresce moltissimo pure il prezzo di argento
(+100,3% in un anno), platino e palladio, che hanno anche un importante uso
industriale, inoltre i diamanti vedono una fortissima crescita della domanda
indiana e cinese, a fronte di un graduale esaurimento delle estrazioni.
Il prezzo
delle terre rare, definite i “metalli
dell’high-tech e delle tecnologie
verdi”, sta diventando più elevato di quello dei metalli preziosi. Si tratta di
17 elementi insostituibili per tutte le
moderne tecnologie di avanguardia, cruciali per lo sviluppo economico e sociale, indispensabili in innumerevoli
applicazioni civili, belliche e ambientali.
Cina e materie prime minerarie
Proprio il
lungo periodo della straordinaria crescita cinese ha fatto esplodere la
richiesta di numerose materie prime. In Cina il consumo procapite di energia è cresciuto del 50%, e questa crescita è
responsabile di metà della crescita globale della domanda.
Nello
scontro per l’egemonia con gli Stati Uniti la Cina, dopo essersi affermata come
principale finanziatrice del debito statunitense, vuole affermare il suo
primato nelle produzioni ad alto valore aggiunto. “Le terre rare saranno il
nostro petrolio”, aveva affermato Deng Xiaoping; e la Cina, contingentandone
progressivamente l’esportazione con l’obiettivo di arrivare a vietarla dal
2015, mentre la domanda mondiale sta crescendo dell’8% annuo, ha proposto alle
multinazionali che usano questi minerali di andare a produrre in Cina
costituendovi imprese miste e rendendo ovviamente disponibili i loro brevetti
in fatto di tecnologie d’avanguardia. Ove ciò avvenisse, le attuali economie
capitalistiche sviluppate diverrebbero unicamente grandi catene distributive,
subordinate alle scelte di politica economica dei paesi produttori a bassi
costi di produzione. D’altra parte già oggi nessuna grande multinazionale può
fabbricare i propri prodotti d’avanguardia senza rifornirsi in Cina (fra le
moltissime ci stanno Apple, BASF, Canon, General Dynamics, GeneraI Electric,
Hewlett Packard, Lockheed Martin, Nokia, Northrop Grumman, Philips, Siemens,
Sony, Toyota). Gli approvvigionamenti alternativi (per esempio in Australia), a
loro volta, di più difficile estrazione, non saranno disponibili prima di molti
anni e in quantità molto scarse, riguardando giacimenti che presentano un
tenore dei minerali assolutamente inferiore.
Ciò ha
gettato nel panico l’industria hi-tech
mondiale, scatenato gli appetiti degli speculatori, fatto quindi crescere,
secondo il Financial Times, una nuova
pericolosa bolla speculativa nei mercati finanziari.
Oltre alle
terre rare la scarsità riguarda materie prime di cui sempre la Cina detiene una
larga parte delle risorse mondiali. Negli anni scorsi essa aveva limitato, con
dazi e contingentamenti, anche l’esportazione di fosforo e di coke
metallurgico, di cui è il principale produttore mondiale (è anche il terzo
produttore di litio e il quarto di potassio). Essa inoltre partecipa, con la
sua enorme disponibilità di riserve valutarie, alla campagna mondiale per il
controllo delle risorse minerarie (oltre che energetiche ed agricole) del
pianeta nel loro complesso.
Nello
scontro che concretamente oppone la Cina al centro capitalistico, concentrato
soprattutto sul Pacifico, l’Unione Europea è irrilevante, sembrando rassegnata
a un ruolo subalterno rispetto alle altrui iniziative. Ma anche
quest’atteggiamento rischia di innescare un periodo di instabilità economica a
opera della speculazione.
La situazione delle risorse energetiche
E’
probabile, proprio a causa dello squilibrio fra domanda e offerta, che, al di
là delle tensioni speculative derivanti dai problemi di stabilità dei paesi
produttori, vi sarà un forte rincaro dei prezzi degli idrocarburi: la cui
domanda è in forte aumento soprattutto perché in Cina il consumo pro-capite di energia è cresciuto del
50% (la crescita del consumo cinese è responsabile di metà della crescita della
domanda globale di idrocarburi). Non solo: secondo le stime la domanda globale
dovrebbe raddoppiare in dieci anni, e questo a fronte di una riduzione
tendenziale dell’offerta. Inoltre per la prima volta nella storia non esiste un
modello già pronto di transizione energetica.
Parimenti
la fruizione eccessiva dei combustibili fossili già da tempo determina
rilevanti cambiamenti climatici (si cerca di contenere questi cambiamenti
attraverso il “sequestro” dell’anidride carbonica, stoccandola in siti
geologicamente sicuri: quanto effettivamente sicuri, nel lungo periodo?). Il
riscaldamento climatico sta anche liberando nell’atmosfera volumi enormi di
metano, prigioniero di ghiacci e territori il cui suolo è gelato: e il metano
dispone di un effetto serra di oltre venti volte più efficace di quello
dell’anidride carbonica. La fissione nucleare, a sua volta, starebbe secondo i
suoi sostenitori risolvendo il problema della sicurezza degli impianti, con le
sue nuove centrali a sicurezza “intrinseca”. Ma a parte il fatto che molti
ricercatori dubitano dell’effettività di questa sicurezza, il disastro delle
centrali giapponesi ci dice che nessun impianto è in grado di resistere ai
fenomeni estremi della natura; inoltre le centrali producono scorie radioattive
della durata di centinaia di migliaia di anni, ciò che propone il problema
dell’effettiva sicurezza del loro stoccaggio; ancora, neanche la disponibilità
di materiale fissile è eterna. Le energie alternative, secondo la maggior parte
degli esperti, potranno coprire solo una parte della domanda, tanto più che nel
2050 potrebbe essere doppia rispetto all’attuale. Ancora, parte dei
biocarburanti contribuisce alla crisi alimentare, l’idrogeno non è una fonte
energetica ma solo un vettore energetico, garantisce certo aria pulita alle
città ma aumenta l’inquinamento alla fonte di produzione; e la fusione nucleare
pulita, che risolverebbe il problema, resta molto lontana, anzi non è detto che
risulterà realizzabile.
Il problema
può essere affrontato solo con una pluralità di strumenti e, soprattutto,
attraverso la riduzione dell’impatto energetico di produzione e consumi. Gli
statunitensi Mark Jacobson e Mark Delucchi, dell’Università di Stanford, hanno
elaborato un progetto di riconversione integrale alle energie rinnovabili entro
il 2030, eliminando quindi i combustibili fossili, con il ricorso a 3,8 milioni
di grandi turbine eoliche, 90 mila impianti solari e una certa quantità di
installazioni geotermiche, mareomotrici e fotovoltaiche, con un costo di
generazione e trasmissione dell’elettricità inferiore al costo dei combustibili
fossili e nucleare. Ma ci sono di mezzo fortissimi ostacoli politici, inoltre
vale ancora la scarsità di alcuni materiali indispensabili (terre rare). I
recenti annunci di un nuovo metodo di produzione di idrogeno a basso impatto
ambientale e quello, proveniente dalla Cina, di un processo di
rifertilizzazione del materiale fissile esaurito delle centrali nucleari, che
ne moltiplicherebbe per centinaia di anni la durata produttiva, riducendo nel
contempo il problema delle scorie e della disponibilità di combustibile (ma
certo non quello della sicurezza degli impianti) costituirebbero novità molto
importanti nel senso di prendere tempo per la ricerca e l’applicazione
operativa in sede di fonti alternative rinnovabili e a basso impatto
ambientale: ma occorrerebbe intanto verificarne la veridicità.
La situazione delle risorse alimentari
I tre più
importanti cereali della storia, grano, riso e mais, hanno costituito la base
fondamentale dell’alimentazione, rispettivamente in Europa, Asia e America, e
continuano a esserlo oggi. Il loro prezzo è aumentato mediamente del 70% in un
anno e aumenterà ancor più nel prossimo futuro, minacciando le condizioni di
vita e la vita stessa di centinaia di milioni di persone.
La
produzione cerealicola del 2010 è stata compromessa dal forte deterioramento
delle condizioni climatiche, connesse alla presenza di un fenomeno
meteorologico, la Niña, che provoca catastrofi climatiche e situazioni estreme,
come siccità, caldo torrido, incendi, gelate, uragani, alluvioni, inondazioni,
che hanno colpito importanti regioni produttrici ed esportatrici, con effetti
disastrosi per i raccolti agricoli. Sono stati pesantemente colpiti Stati
Uniti, Sudamerica, Russia, Ucraina, Asia centrale, India, Pakistan,
Afghanistan, Sudest asiatico, Australia ma anche Europa centro-orientale,
Scandinavia, Francia. Nessuno è in grado di dire quanto questa crescente
violenza meteorologica e climatica abbia dipeso da fenomeni ricorrenti e quanto
da cambiamenti climatici stabili. Questi ultimi in ogni caso sono ormai una
palese realtà. Inoltre il calo di 41 miliardi di tonnellate nella produzione di
grano e di quasi un terzo di quella di soia ha spostato la domanda su altri
alimenti base come il riso e l’orzo, ampliando il rincaro del complesso degli
alimenti e riducendone le riserve mondiali. Si aggiungano a ciò malattie come
la “peste delle banane” di tipo Cavendish (sono il 90% della produzione
mondiale), le cui piante sono state colpite mortalmente da un fungo a cui non è
stato finora trovato rimedio.
Oltre a
risultare dai disastri climatici la crisi alimentare risulta da dati
strutturali duraturi, legati essi pure alla crescente divaricazione fra domanda
e offerta. L’aumento della domanda internazionale di prodotti alimentari ha un
duplice fattore: la crescita demografica mondiale di circa 70 milioni di
persone l’anno, più della popolazione italiana, e la crescita dei redditi dei
paesi emergenti, soprattutto asiatici, e in particolare di quelli, come Cina e
India, caratterizzati da enormi popolazioni (messe assieme fanno oltre due
miliardi e mezzo di individui), ciò che vi determina un cambiamento degli stili
alimentari tradizionali, passati da riso e verdura a carne e pane. Dato che per
ottenere 100 calorie di carne ne occorrono 700 di mangimi, ciò ha comportato un
aumento enorme del consumo di soia e di granaglie per mangimi, in particolare
del mais.
La Cina
importa il 75% del totale di semi di soia, un milione di tonnellate alla
settimana, e un grande quantitativo di mais, ma è l’India l’importatore alimentare
globale. Indonesia e Bangladesh stanno importando grandi quantità di riso.
L’incremento della domanda spinge verso una maggiore produttività per ettaro e
questo a sua volta rincara i fertilizzanti. Inoltre l’aumento del prezzo di
soia e cereali porta all’aumento dei costi dell’allevamento e quindi di carne,
uova, latte e loro derivati (al tempo stesso, secondo la FAO, il 25% del cibo
prodotto nel mondo, per un valore di 458 miliardi di dollari l’anno, viene
sprecato).
L’offerta
alimentare tende inoltre non solo a non crescere adeguatamente ma per molte sue
voci a calare. Le cause sono molte. I mutamenti climatici hanno ridotto la
produzione. Risulta sempre più difficile aumentare la produzione alimentare
perché paesi come India, Cina e Stati Uniti, i maggiori produttori di grano,
l’hanno forzata supersfruttando le falde idriche sotterranee e queste sono
giunte al limite delle loro capacità o stanno esaurendosi. Inoltre le aree
coltivate sono state ridotte: la politica agricola dell’Unione Europea ha
finanziato la riduzione delle superfici
coltivate e contingentato la produzione di carne e di latticini e l’espansione
planetaria delle aree urbane, delle attività industriali e delle infrastrutture
viarie e ferroviarie ha sottratto terreno. Ancora, l’estensione crescente delle
coltivazioni destinate alla produzione di biocarburanti (etanolo), sussidiata
dal governo statunitense e da quello brasiliano, sottrae spazio essa pure alla
produzione alimentare. Un terzo della produzione di mais negli Stati Uniti è
destinata alla produzione di mais per biocarburanti, anche se, a differenza
della canna da zucchero in Brasile, l’efficienza energetica del mais è negativa
(l’energia ottenuta è assai inferiore a quella impiegata per la coltivazione).
Infine il
rincaro del petrolio si trasmette immediatamente ai prezzi agricoli, poiché la
filiera agricola è molto energivora. Tuttavia l’aumento dei prezzi agricoli è
eccessivo, dipendendo soprattutto dalla speculazione, che punta sull’“agbull
market”, ovvero sul “toro” dell’agricoltura. “Siamo nel pieno di un
turbomercato del “toro agricolo” basato sulla domanda dei mercati emergenti,
che sta creando una potenziale carenza di cibo a livello mondiale”, ha
dichiarato Jim Cramer, discusso fondatore di un hedge fund.
L’agflazione
L’“agflazione”,
termine coniato dagli analisti di Merryl Linch per descrivere la forte crescita
dei prezzi dei generi alimentari (su cui questa banca d’affari specula alla
grande) è un fenomeno globale in forte accelerazione e che negli ultimi anni
che ha raggiunto livelli vertiginosi.
La FAO ha
creato nel 1990 il Food Price Index, cioè un indice che rileva l’andamento dei
prezzi di 55 prodotti alimentari di largo consumo (tra i quali grano, mais,
riso, semi oleosi, latticini, zucchero, carne). Quest’indice ha raggiunto nel
giugno 2008 il picco di 213,5 punti (rispetto ai 100 iniziali), che inoltre
risulta ampiamente superato a gennaio 2011, raggiungendo quota 236, la crescita
maggiore mai registrata dal suo varo. Secondo la FAO “nel giro di un anno i
prezzi delle materie prime alimentari sono, in media, più che raddoppiati e
sarebbe folle pensare che questo sia il picco” conclusivo: quindi dobbiamo
attenderci ulteriori consistenti aumenti, anche per effetto di un nuovo rialzo
del prezzo del petrolio. Negli Stati Uniti il prezzo del grano è cresciuto del
60% in un anno. Secondo Federalimentari i prezzi delle materie prime alimentari
hanno registrato in Italia una crescita del 44,4% in un anno, ed essa è
destinata a continuare, prevedendosi un aumento dei derivati del grano (pane,
pasta) del 30% nel corso di quest’anno. Secondo Lester Brown, direttore del
Earth Policy Institute di Washington, i prezzi continueranno a salire, ma se ci
sarà un cattivo raccolto anche nel 2011, l’aumento avverrà in termini tali da
configurare un disastro, poiché ci sarà l’esaurimento delle scorte strategiche,
usate per far fronte alle crisi. “Solo un cattivo raccolto”, ha detto, “separa
il mondo dal caos”.
Il mercato
alimentare è sempre più mondializzato. Secondo la FAO il bilancio mondiale
delle importazioni alimentari toccherà un nuovo record nel 2011, dopo aver superato quei 1.000 miliardi di dollari
nel 2010 che già hanno rappresentato una crescita del 15% rispetto al 2009.
L’esportazione è concentrata in pochi paesi: Stati Uniti (70% del granturco e
30% della soia), Brasile (60% dello zucchero). Alcuni paesi invece, come Russia
e Ucraina, hanno vietato o contingentato l’esportazione di cereali.
Quella
attuale è la terza grande crisi alimentare in pochi decenni e la seconda
nell’arco di un triennio, e potrà solo aggravarsi, dato il concomitante aumento
del prezzo del petrolio. Nel 1973-74 la crisi del riso causò la morte di oltre
un milione di persone solo in Sri Lanka e Bangladesh, mentre nel 1977-78
l’aumento del prezzo del petrolio ha provocato carestie e rivolte del pane in
una cinquantina di paesi della periferia capitalistica. Quella attuale è la
causa scatenante della rivolta di popolo in Nordafrica e Medio Oriente.
A fare le
spese di tutto questo sono ovviamente le popolazioni o le loro quote più
povere, specie nella periferia, dove i prezzi sono ormai troppo alti per una
notevole parte delle popolazioni. Il numero degli affamati supererà nel mondo
il miliardo, secondo molti studi, si moltiplicheranno carestie e “rivolte del
pane”, raddoppierà il numero di quanti (oggi un miliardo) vivono con meno di un
dollaro al giorno e devono spendere l’80% del loro reddito per l’alimentazione.
Gli obiettivi, già problematici, fissati dall’ONU contro la povertà e la fame
diverranno assolutamente irrealizzabili, si avrà piuttosto il contrario. I
paesi più a rischio sono gli 82 paesi poveri importatori netti di alimentari e
particolarmente i 22 paesi che sono nel contempo importatori energetici,
innanzitutto Haiti e il Bangladesh, che avranno gravissime difficoltà di
approvvigionamento.
L’agflazione
comporterà anche un profondo mutamento delle abitudini alimentari. “Nel futuro
ci sarà meno pasta, pane, carne, uova, latte, formaggio; proteine e carboidrati
dovremo cercarli in patate, fagioli, lenticchie, ma ci costeranno più di oggi”
(Maurizio Ricci, la Repubblica, 4
febbraio 2010). Non sempre questo farà bene alla salute.
Il neocolonialismo alimentare
I paesi che
dispongono di ingenti riserve valutarie, concentrate nei loro fondi sovrani,
come i paesi petroliferi del Golfo e la Cina, sono entrati in quello che
Jacques Diouf, Direttore Generale della FAO, ha definito il “neo-colonialismo
agricolo” e il giornalista economico Federico Fubini “la terza fase della
globalizzazione”, con l’acquisto di terre all’estero che, in pochi anni, può
portare a coprire circa un quinto della produzione mondiale delle principali
derrate alimentari.
Il paese
più attivo in questa sede è l’Arabia Saudita, che ha investito a tal fine
miliardi di dollari in Etiopia, Indonesia, Pakistan e Filippine. Il Kuwait ha
acquistato intere province agricole della Cambogia e allevamenti estensivi di
pollame nello Yemen. A sua volta la Cina ha acquistato vasti territori agricoli
in Camerun, Congo-Brazzaville, Tanzania, Uganda, Zimbabwe per i cereali, in
Mozambico per il riso, inoltre in Filippine, Laos, Kazakhstan, Nigeria e molti
altri paesi, suscitando anche rivolte fra i contadini locali. “Paesi in preda
alla malnutrizione, come il Sudan e l’Etiopia, sono diventati grandi
esportatori di derrate di cui hanno perso il controllo. Le nuove potenze
coloniali vogliono assicurarsi l’approvvigionamento diretto di cibo senza dover
passare dai mercati globali”, quindi esserne rapinate (Roberto Bongiorno, Il Sole 24 ore, 27 gennaio 2011).
Quali rimedi?
L’aumento
dei prezzi dei prodotti alimentari potrà essere contrastato stabilmente solo
operando su più piani. Innanzitutto occorre praticare un aumento della
produzione agricola attraverso una maggiore estensione delle colture a scopo
alimentare. La Commissione Europea ha finalmente deciso di non far valere
quest’anno l’obbligo di tenere a riposo il 10% delle terre coltivabili (250
mila ettari in Italia). Occorre limitare la produzione di biocarburanti,
limitandola alle sole terre marginali, inadatte alla produzione agricola, ed
eliminando gli attuali incentivi negli altri casi. Occorre procedere subito,
senza aspettare la scadenza del 2015, alla riforma della politica agricola
dell’Unione Europea, le cui quote produttive sono servite a tenere alti i
prezzi e quindi i redditi dell’impresa agraria di tipo capitalistico, riducendo
l’offerta potenziale, cosa sempre più assurda in presenza di una carenza di
offerta e di prezzi internazionali crescenti. Occorre poi ridurre la lunghezza
della filiera alimentare, favorendo la distribuzione diretta e sostenendo
economicamente i consumatori più indigenti. E’ poi necessario costituire
riserve mondiali alimentari di dimensioni adeguate a garantire una copertura
sufficiente in caso di carenze prolungate e carestie.
E’ anche
indispensabile limitare la speculazione dei prodotti derivati “nudi”, privi di
un sottostante reale, che contribuiscono a moltiplicare la dinamica ascendente
dei prezzi: ma se ciò oggi è possibile negli Stati Uniti, grazie a una recente
riforma finanziaria, a Londra non esistono leggi analoghe e il governo
britannico si è dichiarato contrario a porre limiti sulla negoziazione di
questi derivati, inoltre l’Unione Europea non ha tuttora assunto alcuna
decisione in merito.
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