Abbiamo
ancora davanti le intemperanze degli anni scorsi, quando Brunetta e
Tremonti parlavano di cultura e spettacolo come di un impiccio, a cui
togliere fondi pubblici e non incentivare quelli privati. «Con la
cultura non si mangia», ebbe a dire il disgraziato ministro
dell’Economia, ignaro o dimentico di un intero settore produttivo del
Paese, quello che sfrutta i tesori ereditati e i capolavori
dell’intelletto umano: rappresentazioni tipiche di una destra plebea e
massificante, in perenne debito perfino con l’introiezione consapevole
degli aspetti migliori di un portato veramente popolare. La sinistra di governo,
una volta che sarà liberata dalle larghe intese e potrà esprimersi
compiutamente, dovrà prendere e fare l’esatto opposto di quanto il
berlusconismo abbia prodotto nel ventennio, in tutte le materie ma
soprattutto in questa: cominciando col contrapporre alla mistica dell’everyman la
valutazione dell’assetato di conoscenza, contrastare l’agevolazione del
degrado con il recupero, la qualità, la nuova produzione.
Le prime
mosse, anche nello stile, del ministro democratico Massimo Bray sono
state lodevoli, ma siamo certi ci sia ancora molto da fare: in tal
senso, il documento congressuale che sostiene la candidatura di Giuseppe Civati
a segretario nazionale del PD contiene numerose idee guida e anche i
loro prospetti concreti, nella convinzione che l’Italia senza la cultura
non è.
I
crolli di Pompei, avvenuti per incuria durante la reggenza del
dicastero dei Beni e Attività Culturali da parte di Sandro Bondi, sono
il paradigma di cosa sia stata la politica culturale della destra.
Salvare Pompei, e le mille Pompei d’Italia, significa
mettere in sicurezza non solo i motori fondanti della nostra esistenza
quale comunità, ma anche la fonte principale dell’economia per alcune
zone, grazie a un turismo che ormai esige sempre di più la connessione
tra le opere d’arte, la programmazione di eventi e la promozione del territorio, anche a livello gastronomico. Nel mentre lo spettacolo dal vivo,
in specie il teatro e alcune aree musicali, stanno conoscendo una
stagione felice, ove l’ispirazione degli autori e degli interpreti
incontra il consenso di un pubblico mai così numeroso nelle ultime
decadi, capace di superare nei numeri anche quello delle manifestazioni
sportive: dare visibilità e forza al fenomeno è parte dei doveri di uno
Stato, soprattutto nella formazione delle giovanissime generazioni, che
traggono dalla fruizione di tali iniziative uno stimolo ulteriore alla
propria crescita personale. Nessun altro Paese al mondo può contare
sopra un patrimonio delle dimensioni e dell’importanza di quello
italiano: ma dobbiamo essere avvertiti che non è la sola condizione
affinché il suo godimento possa generare effetti benefici, anche fuori
dal prodotto interno lordo. Servono leggi, comportamenti, soluzioni
inedite.
E’ proprio nei momenti di crisi che la cultura e quanto le è connesso deve diventare un’ancora di salvezza, con un attento contenimento dei prezzi di accesso
e la pianificazione organica di un’epoca nuova, perché dalla crisi non
si esce come ci si era entrati, e una politica saggia è quella che
governa i rischi anziché farsi trasportare dal loro dispiegarsi senza
una rete di protezione. Perciò nella costruzione delle identità
particolari e collettive il faro dev’essere l’innovazione,
che necessita di un intero ecosistema in cui mettere radici: non
semplicemente aggiornando sistemi e tecnologie, bensì immaginare,
articolare e costruire l’epoca nuova. Serve visione a medio-lungo
termine e coraggio di prendere decisioni non ancora popolari, ma che lo possono diventare: un’agenzia nazionale dedicata alle industrie creative
può essere la pietra angolare del venturo contesto, dove il vocabolo
industrie spiega bene il rapporto stretto che deve intercorrere tra la
produzione culturale, la sua comunicazione e il fatto che gli addetti a
tutti i livelli possano vivere delle proprie competenze. Una governance
autonoma dalla politica garantisce la connessione con la ricerca, sul
modello britannico del Nesta (National Endowment for Science, Technology
and the Arts), un centro di eccellenza europea impegnato
nell’applicazione dell’analisi culturale allo sviluppo della società.
Non dobbiamo temere di guardare alle migliori esperienze internazionali
per farle nostre, quando l’Italia non ha saputo nè voluto stare al passo
per troppo tempo, rifiutando l’idea che la soluzione fosse altrove.
La continua penuria di risorse che si possono investire dice che l’ente pubblico statuale non potrà più essere il solo finanziatore del modello:
ecco che agire sulla leva fiscale per i privati diventa la maniera
premiante per ottenere lo stesso risultato, rendendo deducibili le
sponsorizzazioni a mostre, allestimenti teatrali, installazioni,
festival. Lo stesso vale per i vantaggi che devono essere riconosciuti
agli enti di prossimità, sia nella fase della tutela dell’esistente che della messa a disposizione del pubblico, oltre che del sostegno ai maker
giovani e meno giovani: le migliori esperienze siano messe al servizio
del progetto generale e verificate in corso d’opera, nella filosofia che
accompagna lo sperimentalismo democratico di cui scrive Fabrizio Barca.
Un altro varco all’innovazione è costituito, nel programma culturale di
Giuseppe Civati, dall’ibridare filiere appartenenti ad
ambiti che di solito non comunicano tra loro, con aggregazioni in
distretti omogenei capaci di esporsi in termini di storytelling
unitario: esempio pregnante, il rapporto che Cittadellarte di
Michelangelo Pistoletto ha saputo costruire nel territorio biellese
collegando i puntini dell’impresa, dell’ente pubblico,
dell’informazione, della didattica e ovviamente degli
artisti che ospita, provenienti da tutto il mondo, per pensare assieme
il futuro. Ma in Italia, nonostante tutto, queste forme virtuose sono
spesso ancora a un livello pionieristico, in specie al sud, che avrebbe
tutto da guadagnare nell’affermare un proprio marketing territoriale
autonomo ed efficace.
Accanto a strumenti quali le Film Commission (da estendere, per favorire l’identificazione dei luoghi passibili di turismo) e le residenze artistiche temporanee allo scopo di creare nuovi artefatti, resta aperta la questione che concerne il trasmettere conoscenze intangibili, saperi, narrazioni, documenti
e pratiche ricevute da chi ha abitato l’Italia prima di noi. Da un lato
l’apertura di “musei del Novecento”, ove convogliare in maniera
partecipata gli svincoli della grande storia e le vicende della piccola,
dall’altro la piena digitalizzazione dell’ingente
materiale, prodromo alla sua conoscibilità universale a portata di clic:
si ottiene così un elevato livello di condivisione del sapere, e
contemporaneamente la qualificazione lavorativa delle competenze
maturate, specie in ambito umanistico. Un vero archivio
dei territori quale asse portante del nuovo modo di intendere la
formazione continua per le generazioni: è ineludibile intervenire nel digital entertainment,
nelle infrastrutture informatiche via cavo e banda larga, sostituendo
progressivamente ma in modo inesorabile le attuali e obsolete, anche in
sede scolastica con l’e-learning. In questo un ruolo decisivo è
demandato agli incubatori di imprese culturali che negli ultimi anni
hanno reso più avanzato e intelligente il Paese. I piedi a terra nel
passato, lo sguardo dritto e aperto sul futuro: per una cultura che non
sia mera nostalgia di quanto accaduto fino a un attimo prima, ma
rivelazione -e rivoluzione- costante di ciò che non si conosce, poiché
non è ancora stato creato.
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