28 giugno 2016

I segnali del voto tra Londra e Milano

Strana bestia la democrazia. Si alimenta della partecipazione dei cittadini attraverso il voto, ma rischia di venire affamata, e incattivita, proprio dalla scarsità di cibo, ovvero, per restare nella metafora, dalla sempre più scarsa partecipazione elettorale.
Non è facile commentare razionalmente l'esito delle due tornate elettorali di questi giorni. In Italia e, nelle ultime ore, in Gran Bretagna.
I risultati elettorali nostrani, lombardi in particolare, perdono di rilievo di fronte alla clamorosa decisione dei sudditi britannici che hanno fatto prevalere il "leave", ovvero l'uscita dall'Unione Europea. Esultano gli euroscettici, ma nessuno capisce o può prevedere le conseguenze di una scelta legittima e democratica che mette in discussione un progetto europeo che fino a qualche anno fa sembrava intangibile, anche se per molti indigesto.
Tornando alla Lombardia, si potrebbe parlare di momento storico per il centrosinistra, visto che mai era accaduto che tutti i capoluoghi di provincia della regione fossero guidati dal PD e dai suoi alleati. E' un dato innegabile, che ci riempie di soddisfazione (per Milano e Varese in primis), ma non può scatenare facili entusiasmi, anche per le condizioni in cui questo risultato è maturato.
Il voto lombardo fornisce comunque segnali chiari, a partire da Varese e Milano.
Nelle due città si giocava una partita decisiva per il presidente della regione Maroni. Lo ha sempre sostenuto lui stesso, confermandolo con la sua candidatura come capolista della Lega (e non di una lista civica) nella sua Varese. L'esito elettorale, seppur di misura, certifica la sconfitta sua personale e del modello di maggioranza che governa la Lombardia che a Milano cercava una conferma della sua forza e della possibilità di essere alternativa credibile al declino del centrodestra.
Il responso delle urne è stato netto: Maroni non ha più la fiducia degli elettori che lo hanno portato a Palazzo Lombardia. Sta a lui trarre le conseguenze politiche del caso, ma temiamo che faccia spallucce e continui a galleggiare e attendere che finisca una legislatura che, a voler essere gentili, possiamo definire grigia e insipida.
Ma torniamo al voto e alla partecipazione dei cittadini.
Dagli esiti elettorali britannici e italiani emerge la manifestazione di un grande disagio: nessuno è soddisfatto della situazione che sta vivendo, in termini economici e sociali. Buona parte della politica non è in grado di parlare in modo credibile a questo disagio. Ci riescono coloro che scelgono di utilizzare toni forti e polemici, intercettando un malcontento che si esprime con la scelta di premiare chi propone un cambiamento che, seppure spesso vago e incerto, rappresenta una possibile via d'uscita da una situazione di difficoltà.
C'è un altro aspetto da non trascurare. A Londra prevale nettamente la voglia di restare in Europa, ma la Gran Bretagna più profonda finisce per far vincere il "leave". In Lombardia i capoluoghi votano Partito Democratico, ma il resto della regione premia ancora la Lega.
Parallelismi che reggono fino a un certo punto, ma dicono come non si debbano trascurare le profonde differenze che attraversano i territori, la società e le generazioni: quello che per alcuni è un'opportunità per altri diventa una minaccia. E le paure, suppure cattive consigliere, sono molto più convincenti di razionali scommesse positive.
La bestia democratica è sempre più affamata da una partecipazione che via via si va riducendo. Quando si risveglia si nutre di ciò che trova sul suo cammino. Di questi tempi il cibo più facile da trovare è quello del populismo. Ma gli effetti sul corpo della democrazia rischiano di essere pesanti. I cittadini sono comunque sovrani e il voto, per chi fa politica, è un ordine perentorio da accettare e rispettare. I segnali che arrivano da questi voti vanno analizzati e trasformati in azioni politiche conseguenti. Tutto il resto non conta.

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