di Gigio Rancilio - Avvenire.it
Ormai dovremmo averlo capito: viviamo nell'era della manipolazione. Tutto ormai può essere distorto. Fatti, pensieri, opinioni, voci e persino interviste video possono essere manipolate con facilità per trasformarle in armi politiche o anche solo di “distrazione di massa”. Già, ma come si crea una campagna digitale di disinformazione? Cioè, come si usano le piattaforme social e i siti di notizie, veri o creati ad hoc, per screditare un avversario politico o per veicolare un'informazione falsa in modo che faccia pendere l'opinione pubblica verso una certa parte?
A queste domande ha provato a rispondere una ricerca del centro studi Data & Society (la trovate qui https://tinyurl.com/y34tyvhg). Lo scenario preso in esame è quello americano, ma le tecniche illustrate sono le stesse che vengono usate anche da noi e in altri 70 Paesi del mondo, nei quali – come abbiamo raccontato qualche settimana fa https://tinyurl.com/yy64yc5o – i social vengono usati per per manipolare l'opinione pubblica. Un allarme rilanciato anche dal rapporto Freedom on the net https://tinyurl.com/y4snxqem che registra una sensibile diminuzione della libertà su Internet: “Quella che una volta era una tecnologia liberatrice è diventata un canale per la sorveglianza e la manipolazione elettorale”.
Ma torniamo al nostro studio. Alla base delle campagne di manipolazione online vi è quello che i ricercatori definiscono “source hacking”, cioè la manipolazione delle fonti. Sotto questa definizione vengono raccolte diverse tecniche utilizzate soprattutto con lo scopo di nascondere le fonti utilizzate per la creazione di un messaggio di propaganda politica. A cosa serve nascondere le fonti? Semplice: a far arrivare informazioni false o manipolate anche sui mass media più seri, i quali finiscono a volte per crederle vere e le rilanciano senza sapere di essere diventati a loro volta uno strumento di manipolazione. In questo modo le notizie false avranno una circolazione e un effetto più ampio. Quattro, secondo i ricercatori Donovan e Friedberg che firmano lo studio, sono le tecniche più utilizzate da chi vuole creare campagne di disinformazione.
La prima si chiama “viral sloganeering”. Consiste nel prendere i punti centrali di un messaggio politico di un partito o di un individuo e, attraverso l'utilizzo di immagini e contenuti creati ad hoc, distorcerlo a proprio favore.
La seconda è denominata “leak forgery”. È la falsificazione ad arte di documenti inerenti alla vita privata di un politico (o di un “nemico”) che, una volta rilasciati al pubblico sotto forma di “fuga di notizie”, ne screditano l'immagine.
La terza si chiama “evidence collage”, è la costruzione di una teoria del complotto attraverso una spietata mescolanza di verità bugie. Si mette in atto sovrapponendo articoli di testate vere e riconoscibili a ritagli e articoli falsi, con l'obiettivo di piegare anche le informazioni reali a supporto di una campagna di disinformazione o di una tesi falsa.
La quarta tecnica dei manipolatori si chiama “keyword squatting”. È la creazione di account e hashtag sui social allo scopo di “bombardare” gli spazi digitali dei “nemici” con materiale manipolatorio o che ne scredita l'immagine.
Tutto questo non solo avviene molto più spesso di ciò che pensiamo. Ma, secondo i ricercatori Donovan e Friedberg, avviene anche perché ancora troppi giornali e troppi giornalisti “sono deboli”. In due modi: deboli tecnologicamente (faticano a scovare le tecniche manipolatorie) e deboli umanamente. Questi processi di manipolazione – sottolineano i ricercatori – molto spesso si basano sulla complicità di giornalisti, i quali – per vicinanza politica o per interesse – avallano notizie false o screditanti basate su nessuna fonte o su fonti quantomeno discutibili.
Perché nel digitale è vero che spesso comandano le macchine, ma sono ancora le persone in carne e ossa a fare la vera differenza. Sia quando informano sia quando si informano, leggono, cliccano, commentano e poi votano.
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