9 marzo 2013

LE ERMENEUTICHE DEL CONCILIO E LA LORO VITALITA'.

Di Luigi Bettazzi Vescovo emerito di Ivrea.




LE ERMENEUTICHE DEL CONCILIO E LA LORO VITALITA’


Ratzinger sta chiarendo via via il suo futuro ruolo post-dimissioni. Non solo si appresta a "condizionare" la scelta del successore, ma indica la "linea" principale da seguire. Così infatti si è espresso: occorre valorizzare il Concilio Vaticano Secondo, ma nella suo "vero" significato, non nelle cose che ci sono state "raccontate" dai media... Per questo pensiamo di fare cosa utile pubblicando un articolo di qualche anno fa di Luigi Bettazzi per il Sinodo della CEI, che oggi ci pare interessante segnalare.

... E’ certo che v’è sempre stata la sollecitazione alla realizzazione del Concilio, in particolare da parte dei Papi, che al Concilio hanno partecipato (anche Papa Benedetto vi prese parte, come teologo del Card. Frings di Colonia, autore fra l’altro di un notevole intervento sulla collegialità episcopale). Ma confesso ad esempio che la scelta di un Sinodo episcopale sulla Parola di Dio poteva essere interpretata come il rilancio di un’intuizione del Concilio non sufficientemente valorizzata: in realtà la Bibbia è più letta e più conosciuta di un tempo, ma forse non è così coinvolgente come, ad esempio, un Progetto Culturale. Ed in realtà questo Sinodo ha avuto – almeno così mi è sembrato – un’eco ed un impatto minore di quelli che ebbe, a suo tempo, la Costituzione Dei Verbum. Così come la concessione della liturgia in latino a chi è molto immerso in questa lingua non è stata l’occasione per il rilancio di una partecipazione più attiva per chi usa solo la propria lingua (a cominciare dalle Messe in televisione, così poco esemplari per la partecipazione attiva, a cominciare dai canti!).

Quelle però che troppo spesso vengono contestate – quando non duramente negate – sono le cosiddette “rivoluzioni copernicane”, appellandosi abitualmente alla dichiarazione fatta da Papa Benedetto XVI il 22 dicembre 2005, che cioè l’autentica ermeneutica accettabile è quella della continuità con la tradizione, mentre non lo è, per principio, quella della discontinuità. Si può ben capire che, teologo com’è, il Papa voglia rilevare come questo Concilio non abbia voluto definire o precisare espressamente nuovi dogmi, ma egli stesso ammette, più avanti, “una certa discontinuità”, che è quella innegabile delle “rivoluzioni copernicane” (o “evoluzioni pastorali”, oppure “riprese” – per usare l’espressione di un noto teologo - se si vogliono usare espressioni meno...rivoluzionarie), cioè di modifica circa la centralità di elementi a cui altri vanno subordinati.
Già in partenza Papa Giovanni XXIII fece una rivoluzione – pur senza chiamarla così – indicendo il Concilio non come “dogmatico” (che cioè definisce dogmi e ne deduce la partecipazione o l’esclusione dalla Chiesa) ma “pastorale” (che parte dalla gente, dalla loro sensibilità e dalla loro disponibilità per condurla, con intelligenza e perseveranza, verso i dogmi). Ma vi sono state due reali “rivoluzioni”: la prima consiste nel precisare (soprattutto nella “Gaudium et spes”, ma già nella “Lumen gentium”) che non è il mondo per la Chiesa, ma la Chiesa per l’umanità, per aiutarla ad accogliere Dio, che è amore, nella fede e nella carità fraterna. Questo, se da una parte allarga la visuale del soprannaturale a tutta l’umanità (anche ai neonati non battezzati, come ha confermato lo stesso Benedetto XVI sottoscrivendo nel gennaio 2007 lo specifico Documento della Commissione teologica internazionale), ci deve allora portare a rivalutare la laicità, ricercando insieme quale debba essere – come noi diciamo – “una sana laicità”, ed impegnandoci così ad una leale collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà sul piano della laicità.
Tutto questo induce, anche praticamente, alla seconda “rivoluzione”, che non identifica più la Chiesa con la gerarchia, riducendo la massa laica a beneficiaria della distribuzione della grazia, bensì mettendo al centro il “popolo di Dio”, quindi ogni (cristiano chiamato ad essere – per Cristo e con Cristo – profeta, sacerdote e pastore, ad esso facendo convergere il servizio della gerarchia. Questo “ministero”, se ha valore per se stesso (“ex opere operato”), trova la sua efficacia nella coerenza di chi lo attua (“ex opere operantis”), in una gerarchia che assolva il suo compito di formazione, di santificazione, di comunione, lasciando però ai laici la responsabilità del loro impegno nell’ambito dell’azione ecclesiale, ma in particolare nell’ambito temporale, con tutti i rischi e le approssimazioni che questo può comportare. Se il Concilio non ha usato l’espressione “rivoluzione” (e neanche “evoluzione”), è inconfutabile che ha espressamente modificato l’impostazione originaria della Costituzione sulla Chiesa, che poneva in primo luogo la gerarchia ed in secondo il laicato, mettendovi invece in primo luogo il popolo di Dio ed in subordine la gerarchia. Ed anche la famosa “nota previa”, che ripete quasi ossessivamente che nella Chiesa tutto si compie “con Pietro e sotto Pietro” (e nessuno aveva mai pensato a contestarlo!), non può annullare il principio della collegialità, che vale in primo luogo per i vescovi (come risulta evidente per il collegio degli Apostoli, di cui il collegio dei vescovi è successore), ma che poi va esteso a tutta la Chiesa, la cui caratteristica è appunto la “comunione”.
Non voglio concludere che una certa impressione di stanchezza e di crisi, che si coglie talora nelle nostre chiese, sia dovuta ad un impoverimento del Concilio, ad una eccessiva lentezza con cui si riconoscono e si attuano queste “rivoluzioni”; volevo solo dirvi perché accompagno i vescovi italiani, che si apprestano alla loro tradizionale Assemblea, con una particolare preghiera perché continuino ad impegnarsi per una completa realizzazione del Concilio, e magari lo facciano con un entusiasmo ancora più evidente, con un coraggio ancor più esplosivo.


+ Luigi Berttazzi
Vescovo emerito di Ivrea


pubblicato da R.M.

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