11 aprile 2013

Quando Mario Draghi manipola i dati per difendere l’austerità (e François Hollande rimane in silenzio)




Bernard Marx

Nel suo blog Bernard Marx illustra una storia interessante raccontata il 26 marzo scorso sul sito del Social Europe Journal da Andrew Watt, studioso di politica macroeconomica della Fondazione Hans-Böckler ed ex capo della ricerca economica della Confederazione Europea dei Sindacati.


In occasione del Consiglio europeo della scorsa settimana, Mario Draghi, il presidente della BCE, ha presentato ai capi di Stato e di governo la sua relazione sulla situazione economica nell’area dell’Euro. In essa egli pretendeva di mostrare le vere cause della crisi e la bontà delle sue contro-misure. Draghi ha presentato due grafici che riassumono l’argomento centrale: il primo grafico mostra che la crescita della produttività nei paesi eccedentari (Austria, Belgio, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi) è più forte che nei paesi in deficit (Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna). Il secondo mostra che la crescita dei salari è molto più veloce nel gruppo dei paesi in deficit. La conclusione è facile da capire: le riforme strutturali fondate sulla moderazione salariale portano al successo; invece le rigidità strutturali e del mercato del lavoro, imposte dai sindacati, portano al fallimento. 

Secondo la Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ), che ha letto la cosa con compiacimento, l’impatto dell’intervento di Mario Draghi è stato devastante. Il presidente francese François Hollande, che era intervenuto contro l’austerità e per chiedere misure di sostegno alla crescita, sarebbe rimasto in silenzio dopo questa dimostrazione brillante e inconfutabile del Presidente della BCE, a dimostrazione che non è l’Europa che non va, ma solo alcuni paesi troppo “rigidi”, in particolare sulle dinamiche salariali.

Solo che, ha dimostrato Andrew Watt, la presentazione di Draghi contiene un errore, o meglio una deformazione, semplice, ma essenziale. La misura della produttività è espressa in termini reali. In altre parole, il grafico compara come il lavoratore medio ha prodotto nel 2012 rispetto a quello del 2000. Ma l’evoluzione della retribuzione pro capite (chiamato compensazione, sul grafico) è espressa in termini nominali (anche se, ed è interessante notare, che questo non è esplicitamente indicato nelle diapositive). In altre parole, la misurazione della produttività include l’inflazione, mentre quella del salario non lo fa. E questo è assurdo, sostiene Andrew Watt. In realtà, in un paese dove i salari reali si evolvono come la produttività, i salari e la quota dei profitti sul reddito nazionale rimarranno costanti. Per contro ed invece, se è la crescita dei salari nominali ad essere comparata con la crescita della produttività reale (ed è, a quanto pare, il modello da seguire da parte del Presidente della BCE), la quota di reddito salariale nel reddito nazionale diminuisce continuamente. E se l’inflazione è superiore alla crescita dei salari nominali, i salari reali cadranno troppo.

In un paese “modello”, che soddisfi l’obiettivo di inflazione della BCE (1,9%), non ci dovrebbe essere un parallelismo tra l’evoluzione della produttività e dei salari nominali per occupato, ma una progressivo standard accumulativo del 1,9% all’anno. Dopo 12 anni di unione monetaria per questo paese “modello” la differenza vera tra la curva salariale e la compensazione della curva della produttività dovrebbe essere intorno al 28%.

Se François Hollande ne fosse stato a conoscenza, forse non sarebbe rimasto in silenzio. Avrebbe potuto dire che il suo paese è stato in realtà molto vicino al riferimento del paese “modello”: il diagramma del signor Draghi mostra per la Francia un divario tra produttività effettiva e variazioni dei salari nominali del 32%, molto vicino infatti al modello standard del 28%.

Si può dire di più e questo è il punto chiave, secondo Watt. L’uso corretto dei dati avrebbe trasformato la Germania da modello esemplare di sviluppo virtuoso tra produttività e salari, come è infatti dipinta da Mario Draghi, in quello che realmente è: un paese che è stato costantemente al di sotto del salario standard in relazione ad una crescita equilibrata nell’unione monetaria ed è quindi stato, per questo, un fattore importante nella crisi.

Andrew Watt conclude: “o un punto chiave decisionale nella politica economica dell’Unione europea ignora il corretto uso di fondamentali concetti economici, oppure, intenzionalmente, li utilizza con l’introduzione di un errore, per costringere i politici a seguire una politica certamente coerente con le loro preferenze ideologiche, ma in contrasto con la stabilità e il recupero della zona euro, e in questo caso particolare, non in conformità con il loro mandato costituzionale”.

pubblicato da RM

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