16 luglio 2013

La rabbia di Maroni per i suoi primi 100 giorni

Perché Maroni se l'è presa così tanto per le parole di Ambrosoli e ha abbandonato stizzito l'aula durante il discorso del leader dell'opposizione di centrosinistra?
Può sembrare una domanda oziosa, ma l'atteggiamento del presidente della Lombardia rivela tutta la fatica dei primi 100 giorni della nuova legislatura. Partito con l'idea che bastasse una tinteggiatina di verde leghista su Palazzo Lombardia per far ripartire una regione che aveva solo bisogno di cambiare aria ai piani alti, Maroni in tre mesi si è reso conto che la faccenda rischia di essere ben più complicata.
L'alleanza obbligata con il Pdl, fatta ingoiare ai sempre più sparuti militanti leghisti con la scusa della macroregione, si sta dimostrando più complessa del previsto, anche perché le diverse anime dei pidiellini non sembrano destinate a rinunciare così facilmente a posti e battaglie simboliche.
La macchina regionale, più volte definita come una Ferrari, rischia davvero di rimanere in garage per l'assenza di combustibile adeguato per qualità e quantità, per la latitanza di un pilota degno di questo nome e per l'inesperienza di meccanici che, presi singolarmente sanno il fatto loro, ma faticano a considerarsi una squadra affiatata.
La crisi ha fatto e sta facendo la sua parte importante e non basta invocare la diversità lombarda e il sogno infranto del federalismo risorgimentale per garantire un futuro a una regione che pare sempre più affaticata e scoraggiata. Non basta neppure annunciare miliardi di euro di soldi freschi a disposizione di imprese e cittadini, se ci si illude di poter continuare come se nulla fosse a percorrere strade già battute e incapaci di condurre fuori dalla crisi. Se il ritornello continua ad essere quello della virtuosità, dell'eccellenza e della diversità di una Lombardia che sarebbe già fuori dal tunnel se non fosse per il resto dell'Italia e per il centralismo romano, crediamo proprio che non si vada lontano e che i prossimi mesi rischiano di essere ancora più duri per il sistema economico e sociale.
Capiamo allora il perché della rabbia di Maroni. Non pare tanto rivolta contro Umberto Ambrosoli, che ha sì usato toni fermi nel denunciare l'immobilismo e la sostanziale continuità con l'amministrazione precedente, ma non ha neppure sfiorato le punte di polemica e aggressività che hanno da sempre caratterizzato il lessico politico leghista. La reazione di Maroni pare piuttosto dovuta alla consapevolezza di essere alla guida di una regione che fa fatica a offrire risposte vere alla crisi, che viene snobbata a Roma da un governo poco incline a dare spazio alle rivendicazioni macrolocaliste maroniane e non trova sponde di interlocuzione a Bruxelles, dove il peso specifico della Lombardia non è pari alle troppe parole sull'eccellenza spese nell'era formigoniana e non ancora abbandonate.
Cento giorni sono pochi per cambiare la Lombardia, ma sono più che sufficienti per capire che gli slogan efficaci durante la campagna elettorale non bastano per garantire una prospettiva alla più importante delle regioni italiane.
E la fatica nel trovare una visione credibile per la Lombardia è emersa con grande chiarezza nel lungo dibattito che ha accompagnato l'approvazione del Piano Regionale di Sviluppo. La Giunta è rimasta in silenzio o quasi, mentre i consiglieri di maggioranza si sono esercitati in tipiche operazioni di marcatura del proprio territorio, con interventi mirati più a rassicurare il proprio elettorato che a costruire solide prospettive di governo. Esemplificativi, in tal senso, gli emendamenti presentati dalla Lista Maroni che miravano a far riscrivere con la maiuscola la parola macroregione o a ridefinire lo stato nazionale come stato centrale. Il fatto stesso che siano stati approvate quasi 100 modifiche al testo originario dice come il cammino ipotizzato da Maroni sia ancora tutto da costruire e non abbia una direzione ben chiara.
Ecco perché il presidente si è indispettito e ha manifestato tutto il suo nervosismo.
Lo comprendiamo: con la sua vittoria ha garantito la sopravvivenza politica della Lega, ma ora ha il grosso problema di condurre la Lombardia fuori dalla crisi. Operazione non facile per nessuno, ma al limite dell'impossibile per chi continua a ragionare in termini localistici e identitari.

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