By Luca Caputo in Editoriale - Circolo Dossetti Milano
18 Settembre 2019
Nei giorni in cui i nostri ragionamenti vertevano sugli scenari di opportunità che proprio per il Partito Democratico si erano aperti con il varo del Governo Conte II, irrompe sulla scena politica nazionale la decisione di Matteo Renzi e, almeno in questa prima fase, di una parte degli esponenti politici a lui più vicini, di lasciare il PD: decisione non imprevista nel se ma certamente inattesa sul quando.
La tempistica di questa (per usare una parola d’ordine dei Renziani) “scomposizione” (immediatamente dopo il varo definitivo del Governo, le lamentationes circa l’assenza di sottosegretari provenienti dalla Toscana e l’annuncio del ritorno di LeU in ambito PD), suggerisce una versione dei fatti non del tutto convincente, perchè sostanzialmente adombrata ed annunciata prima delle nomine ministeriali. E perchè già nei pensieri di molti insofferenti.
Non è in dubbio che nel Partito Democratico ci siano state negli ultimi anni delle chiare differenze di vedute politiche; ed era persino evidente che ve ne fossero, di pesanti, anche di natura personale.
Tuttavia, non vogliamo piegarci alla logica delle differenze: non è nella nostra cultura il ricercare le differenze prima delle similitudini.
Riteniamo, e ritenevamo nello scrivere quelle righe sulle possibilità per il PD in questa nuova fase, che fosse il momento di ricercare quanto mai l’unità.
Un termine certamente caro alla sinistra, ancorchè ne rappresenti il vero tallone d’ Achille.
Un termine certamente caro a chi scrive e a chi, nato politicamente nella Democrazia Cristiana, ha percorso con convinzione e decisione tutta la Transizione, a tratti un vero e proprio viaggio nel deserto, verso quella -la forma, partito o coalizione, non era importante- che avrebbe dovuto essere la casa dei democratici: cattolici-, sociali-, o liberali- non importava; comunque Democratici.
La Transizione ci ha portato in un luogo preciso: un partito, una casa e non una cosa. La differenza è sostanziale, perchè a quel punto eravamo chiamati a viverla in condivisione, nello spirito dell’ unità (anche nella diversità), quindi nella necessità di trovare punti d’intesa. Di sintesi fra le culture, si diceva: una questione che ai più disinvolti e cinici pareva risibile, perchè gli interessi di parte (e di cassa) avrebbero finito per prevalere; e che ai più lungimiranti appariva -e, riteniamo, appare ancora- decisiva per il destino non solo del Partito Democratico, ma di tutto il popolo riformista ovunque si collochi.
Forse addirittura del Paese, della maturità e della qualità della nostra democrazia.
Le uscite dei Renziani e dei vari altri a titolo individuale vanno a costituire un blocco “al centro”, a riempire uno spazio nel quale potrebbero confluire altre frange politiche provenienti da altri mondi, certamente non sintetizzabili con quanto cade più a sinistra. Soprattutto se questa ne esce impoverita sotto il profilo culturale.
Non conosciamo, sinceramente, quale sia il disegno di fondo di una simile “scomposizione e ricomposizione”: guardando le cose con una prospettiva corta, parrebbe un semplice mettere insieme intelligenze -che indubbiamente ci sono- e gruppi, destinato a superare lo sbarramento elettorale e ad assumere un ruolo di arbitro di qualunque possibile aggregazione di Governo: viste anche talune intrinsecità del nuovo soggetto (prima fra tutte, l’autoproclamata capacità di interpretare la fase superando vecchie categorie politiche; ma anche l’apparenza delle motivazioni fornite dai diretti interessati) diremmo che si scrive Renzi ma si legge Renxi.
Se pure è possibile che a prevalere siano state mere ragioni di incompatibilità politica tra due diverse aree del partito, è però ugualmente possibile che la posta in gioco sia più ampia: che, cioè, agli autori dello strappo sia balenata l’idea di un panorama futuribile, nel quale il bipolarismo su cui incentrare la vita politica negli anni venire sia un Europeisti vs Sovranisti, traducibile in un Matteo vs Matteo. L’un contro l’altro armati, entrambi protagonisti in parallelo nel fare piazza pulita dei rispettivi campi e destinati a sorreggersi in futuro in una alternanza tutta caratterizzata dai temi loro più congeniali.
Evidenti sarebbero, in questo caso, le ricadute attese sul versante sinistro: una malriuscita confusione tra PD e M5S destinata a svuotarli di significato politico e quindi di voti.
L’operazione renziana (mentre scriviamo arriva anche il nome, “Italia Viva”) non sarebbe un progetto di minoranza decisiva (quella che “farebbe bene al Governo ed anche al PD”, ma di maggioranza politica nel Paese.
Fantapolitica. Forse.
Ancora una volta, torniamo a ragionare nel campo a noi più congeniale, quello delle culture, nel tentativo di onorare il lavoro di chi quella visione, di un Partito Democratico a vocazione maggioritaria, generato da culture politiche degnissime e da esse diverso, l’ha vissuta e perseguita con convinzione. Di offrire una voce alle speranze delle tante persone comuni, per bene, che hanno visto in questo progetto il futuro per un Paese all’altezza delle sfide del XXI secolo.
Non ci sentiamo di scommettere sulle percentuali di voti appannaggio della Cosa Renziana alle prossime elezioni: la volatilità elettorale e gli alti numeri dell’astensione suggeriscono, a nostro avviso, che non sia saggio fare troppi calcoli e che in realtà non esista sistema elettorale in grado di garantire risultati predeterminati, quando a mancare è lo spessore della cultura politica.
Scommettiamo piuttosto, riprendendo il filo del discorso, su quello che per noi è il nucleo centrale della questione:
dare al Paese un futuro politico, per quanto CI riguarda, fondato sull’ incontro e la fusione tra un pezzo importante delle culture protagoniste della nascita della Repubblica; quelle culture in grado di generarne una nuova, progressista, interclassista, rivolta al futuro.
Nella quale sia chiaro per tutti cosa significhino solidarietà, cura degli ultimi, ascensore sociale, merito, innovazione culturale e scientifica, responsabilità e coesione, protagonismo del lavoro e dei lavoratori, ambiente di vita; ed in che modo essi si leghino nel realizzare uguaglianza e democrazia sostanziale.
Ritornare, e convintamente continuare, a parlare di culture e non di cose, politiche, dando loro la concretezza dell’attualità: su questo campo, da anni, ci spendiamo e ci pare questo l’ unico modo per assolvere il compito storico che le grandi storie politiche da cui veniamo hanno nei confronti del Paese.
Forse la nuova Cosa Renziana ha già tutto il bagaglio culturale necessario per vincere questa sfida, e sarà il tempo a dircelo. Così come ci dirà se si è trattato di una semplice operazione di marketing elettorale, di un genuino tentativo di trovare maggiore spazio politico e progettuale, dell’ennesima conseguenza dell’ennesima faida interna al centrosinistra, o invece di un progetto politico dal respiro maggioritario rispetto al quale, ci pare evidente, non possono esservi due vincitori, ma uno solo (oltre, evidentemente, ad una scomparsa del M5S).
Quel che rimane, e forse rimarrà sconosciuto, è perchè mai non fosse proprio possibile ciò che era sicuramente auspicabile, e sicuramente più semplice, a condizione di ragionare in termini culturali e non tribali: approfittare di questo momento favorevole per vincerla (o perderla, certo) tutti insieme.
Questo è il nostro più grande rammarico.
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