Bersani: "Anche la politica deve guarire"
Colloquio con Pier Luigi Bersani di Claudio Sardo - L'Unita
Pier Luigi Bersani sta bene. È dimagrito ma l'ho visto
mangiare con appetito, rendendo il giusto onore a quegli straordinari
tortelli piacentini fatti in casa. Sulla testa sono ormai pallidi i
segni dell'operazione che ha bloccato la sua emorragia cerebrale:
bisogna cercarli per riconoscerli. Gli sono pure ricresciuti i capelli
(dove possono). Da quella drammatica mattina del 5 gennaio non ha più
fumato: «Nessuno me lo ha imposto, ma visto che c'ero...». Il suo volto,
le reazioni, lo sguardo sono quelli di sempre. E così la voglia di
scherzare, che penso sia diventata per lui una sorta di autodisciplina,
un modo per darsi un limite, per non prendersi mai troppo sul serio.
I
collegamenti con Roma tornano a farsi giorno dopo giorno più intensi,
soprattutto attraverso il telefonino che ronza nonostante la moglie
Daniela fulmini quell'oggetto con gli occhi. La passione per la politica
resta per lui una carica vitale. S'arrabbia nel parlare delle cose che
non gli sono piaciute in questi giorni, a partire dai modi con i quali
Renzi ha scalzato Letta e imposto, con la forza, il suo governo senza
aver dato una spiegazione compiuta.
Ha riletto
"La morte di Ivan Il'ic" Ora è alle prese con Machiavelli. Dalla Juve un
dono graditissimo: la maglietta firmata dai giocatori «I test dicono
che la mia memoria è al 100%. Ma se avessi perso quel 5% che dico io,
non mi sarebbe dispiaciuto» «Basta inseguire i pifferai. Il Pd deve
tornare a pensare e a discutere. Non è un nastro trasportatore, né
un'appendice».
Bersani non si rassegna alla
politica ridotta a partita di poker: «Dobbiamo sempre pensare al film di
domani. Oggi stiamo preparando il futuro. E mi preoccupa questo
distacco tra la società e le istituzioni democratiche. Temo che il
distacco continui a crescere e nessuno di noi può illudersi che basti un
po' di populismo e di demagogia, magari in dosi contenute, per
risolvere il problema. Bisogna dire la verità al Paese, e non inseguire i
pifferai sperando di batterli sul loro terreno. Dire la verità,
affrontare i problemi concreti, le questioni che si stanno incancrenendo
perché nessuno ha il coraggio di dire dei no quando sono scomodi. Io ho
sbagliato in qualche passaggio, ho commesso errori, ma resto convinto
che la politica non ritroverà se stessa nei particolari e nelle
tattiche. È il senso, la direzione di marcia che le dà forza. O la
ritroviamo, o ci perdiamo».
Sono andato a
trovare Bersani a Piacenza con Miguel Gotor. Che gli ha portato in
regalo la nuova edizione de Il Principe di Machiavelli, edito da
Donzelli. Il regalo si prestava a facili ironie. Ma Bersani si è messo a
ridere perché aveva sul tavolino e stava finendo di leggere proprio I
corrotti e gli inetti. Conversazioni su Machiavelli di Antonio Gnoli e
Gennaro Sasso. Più che il 500esimo anniversario de Il Principe, deve
essere la crisi della politica a suscitare questa curiosità. O forse è
il risorgente «fiorentinismo». Bersani ha ripreso a leggere da quando si
è quietato il terribile mal di testa che lo ha perseguitato per tutta
la prima fase della convalescenza.
Quando
racconta la sua malattia, la sofferenza è legata soprattutto a quel mal
di testa insopportabile, vai a capire quanto legato alla vecchia
cervicale e quanto all'operazione vera e propria.
Non
ho avuto il coraggio di chiedergli se ha avuto paura di morire. Lui
però ha detto che quando il chirurgo gli chiese la firma per il consenso
informato, prima dell'intervento, non esitò un secondo. Il medico provò
a elencare i rischi: «Lei può morire, oppure...». «L'ho interrotto
subito ricorda Bersani e ho detto: penso che quello che sta per dirmi
sia anche peggio di morire». Certo, entrando in casa Bersani (per me era
la prima volta), non ci vuol molto a capire dove trovi quella riserva
di energia umana e di serenità: l'affetto, l'amore della signora Daniela
e delle figlie è una protezione così attiva e robusta che vale certo
più di tante terapie e tecnologie. «Se avessi potuto, ovviamente mi
sarei evitato tutto questo. Ma, pur nella sventura, confesso di uscirne
con un sentimento di soddisfazione.
La persona
vale sempre più di ciò che fa». Nel dolore si ritrova la solidarietà. E
il senso della misura. Di manifestazioni di solidarietà, di amicizia, di
stima ne ha avute tantissime. E continuano.
Gli
ho detto che anche noi, a l'Unità, siamo stati invasi da messaggi di
simpatia e di incoraggiamento, che andavano molto oltre il consenso o il
dissenso su singole scelte politiche. «Quando sono tornato a casa mi è
venuta voglia di rileggere La morte di Ivan ll'ic di Tolstoj. Non me lo
ricordavo così. I punti di vista sul senso della vita cambiano con
l'esperienza, ma guai a perdere l'umanità più profonda. E guai a non
cogliere le occasioni che la vita ti dà per scoprirle».
Un
punto di vanto per Pier Luigi Bersani è senza dubbio l'ospedale di
Parma, la sanità emiliana. Nel racconto qui prevale la razionalità sul
sentimento.
Fu lui, da presidente della
Regione, a proporre di concentrare su Parma il servizio di
neurochirurgia per tutta l'area tra Reggio e Piacenza.
«La
neurochirurgia è un business e giunsero diverse offerte di privati per
costruire centri nelle tre province. Qualcuno può pensare che sia più
comodo avere la clinica nella propria città. Ma decidemmo di puntare sul
pubblico e su un unico grande centro specializzato, a Parma, in modo da
attirare professionalità, tecnologie, ricerca. Non fu una scelta
facile, ma ho sperimentato che è stata davvero la migliore, che abbiamo
costruito un'eccellenza del Paese. Correvo da Piacenza in ambulanza ma
intanto i medici di Parma, collegati in rete, leggevano la mia Tac. Sono
stato curato al meglio, e sono stato trattato come ogni persona che si
trovi nella medesima condizione».
In quei
giorni, nel turbine della paura e della solidarietà mentre la signora
Daniela negava la benché minima soddisfazione a telecamere o giornalisti
perché, in fondo, considerava persino immorale che le si domandasse
qualunque cosa finché sussisteva un pericolo di vita diventò un
tormentone la partita Juventus-Roma, quella che il 5 gennaio Bersani
chiese alla figlia di registrare prima di entrare in sala operatoria. Da
romanista fatico a ripassare la materia, comunque ho saputo che il
risultato (3-0) è stato comunicato a Bersani al risveglio e che la
registrazione è stata la prima cosa vista alla tv di casa, al rientro.
L'orgoglio di tifoso è stato poi solennemente premiato qualche giorno
fa: a Piacenza è arrivato Giuseppe Marotta, direttore generale della
Juventus, portando in dono a Bersani una maglia dei bianconeri, con le
firme di tutti i giocatori. «È stato veramente un grande gesto di
amicizia», scandisce compiaciuto. Temo per Gotor che il suo regalo resti
a un gradino inferiore: ho sempre avuto la sensazione che la passione
per il calcio sia molto forte in Bersani e che sia abituato a reprimerla
in pubblico.
Certo, la politica dà più
preoccupazioni. Del nuovo governo, Bersani apprezza la scelta di Pier
Carlo Padoan all'Economia. Tra i ministri ci sono suoi amici, ci sono
giovani sui quali ha puntato. Ma ci sono anche cose che lo convincono
poco. Soprattutto non lo convince la sovraesposizione di Renzi, il
rischio che sfiora l'azzardo. I giovani e il record di presenze
femminili sono una bella scommessa ma tutto, troppo è in capo «alla
responsabilità personale di Renzi». Lui ha deciso ogni cosa: i tempi, la
forzatura, gli equilibri. E a Bersani continua a non piacere la
politica personale: «La modernità esalta la leadership, ma ci deve
essere qualcosa di più di una squadra attorno al leader. C'è bisogno di
una comunità che condivide, partecipa, collabora, costruisce». Non gli è
piaciuto neppure il voto della minoranza in direzione. Quel voto a
favore dopo le astensioni nelle precedenti riunioni gli è apparso come
un salto logico, anch'esso non ben motivato. Se la responsabilità è di
Renzi, «bisogna tenere vivo con lealtà e chiarezza il confronto nel
partito. Serve a tutti, non solo al Pd». Con una precisazione: «Questo
non vuol dire che ora non si debba collaborare. Si partecipa e si fa di
tutto perché l'impresa riesca. Quando sento qualcuno che ipotizza di non
votare la fiducia, penso che abbia perso la bussola. La fiducia si
vota, altrimenti finisce il Pd. Poi bisogna tornare a pensare e a
discutere, senza timore di dire la nostra, su cosa è utile che il
governo Renzi faccia per l'Italia e su cosa dovranno fare i democratici
da domani».
LE ELEZIONI E LA CENTRALITÀ DEL PD
La
chiacchierata con Bersani intreccia passato e futuro. «Le elezioni non
sono andate come volevamo, ma hanno confermato la centralità del Pd e la
sua preminente responsabilità verso l'Italia. Il Pd è la struttura
portante, la spina dorsale di un Paese in affanno. Da qui bisogna
partire. Dalle risposte che dobbiamo ai giovani senza lavoro, alle
imprese che stanno chiudendo, alla manifattura italiana, alle eccellenze
che rischiano di diventare preda di acquirenti stranieri, alle famiglie
che non ce la fanno». Bersani vorrebbe scuotere Renzi. Ma anche chi si è
battuto contro di lui al congresso e chi si sente più vicino alla
delusione di Letta, perché il Pd ha bisogno di tutti per rafforzare il
legame con la società. «Il Pd non è un nastro trasportatore di domande
indistinte. Non è un ufficio al quale si bussa per sentirsi dare
risposte generiche o demagogiche. La centralità del Pd non deve cambiare
la nostra idea del governo: guai a pensare che le istituzioni siano
spazi da occupare e che per il consenso basti il messaggio. Il governo è
coerenza, competenza, rischio. E siccome è anche la responsabilità più
impegnativa della politica, da qui deve ripartire il confronto. E il
solo modo per aiutare l'Italia e dunque anche il nuovo governo».
Poi,
dopo l'avvio del governo, si aprirà il confronto sul rilancio del
partito. «Che non è dice Bersani un'appendice insignificante del
governo. Bisogna mantenere una capacità propositiva e un profilo di
autonomia». Ma non ha vinto l'idea di Renzi della sovrapposizione dei
ruoli e delle funzioni? Si può riaprire una battaglia che è stata persa?
Bersani
sa bene che sono in tanti a dire che proprio lui ha perso la battaglia
sul ruolo del partito. «Il tema tornerà perché è vitale per la
democrazia italiana. Non si rompe la tenaglia populista di Berlusconi e
Grillo senza ridare al partito una dimensione sociale, ideale, di
composizione e selezione degli interessi. So di non essere riuscito a
cambiare lo statuto del Pd come avrei voluto. Ma non ho mai avuto una
vera maggioranza per farlo. C'era sempre qualcosa che lo impediva. Ho
cercato di compensare questo limite proponendo una costituzione
materiale del Pd diversa da quella formale. Ho parlato di collettivo, ho
respinto l'idea di un partito personale, mi sono battuto perché la
modernità democratica non contraddicesse i principi della Costituzione.
Ma la battaglia continua».
Prima di tornare a
Roma, Bersani dice che dovrà ancora «misurarsi con l'esterno». È già
andato agli argini del Po, lontano da occhi indiscreti. Altre
passeggiate sono in programma. È stato per me un grande piacere
rivederlo e abbracciarlo. Confesso che temevo qualche ferita più
profonda. Invece abbiamo parlato, come altre volte, cercando di andare
oltre la cronaca incalzante. A proposito di cronache: «Il medico
racconta ancora Bersani mi ha fatto i test della memoria e della
concentrazione. Ha detto che avendo lavorato in quel punto della testa,
voleva avere la certezza che tutte le potenzialità fossero state
preservate. Mi ha fatto una certa impressione quando ha detto di aver
"lavorato" sulla mia testa, ma poi sono stato rassicurato. Tutto è a
posto al 100%. L'ho ringraziato. Dopo però ci ho ripensato: se mi avesse
tolto dalla memoria quel 5% che ancora mi fa male, forse sarebbe stato
perfetto».
Fonte: L'Unita'
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