Editoriale
di Giovanni Bianchi
1 marzo 2016
La questione delle unioni civili è
strettamente connessa al cambiamento dei costumi della società occidentale nel
corso degli ultimi quarant’anni, che ha messo in crisi il modello tradizionale
di famiglia basato sul matrimonio, religioso o civile che fosse (tutte le
religioni concepiscono una forma di benedizione del matrimonio, anche se solo
alcune confessioni cristiane, a partire dal cattolicesimo, lo definiscono un
sacramento).
La necessità di una definizione
giuridica del matrimonio era soprattutto necessitata dall’esigenza di regolare
le modalità e le forme della procreazione, intesa come apporto principale che
l’individuo dava alla continuazione della società tramite la generazione di
nuove vite.
Si può quindi dire che in tutte le civiltà conosciute,
tranne forse alcune molto marginali, la famiglia basata sul matrimonio
eterosessuale e sulla procreazione di una prole legittima fosse la base della
società, e nello stesso tempo diventasse la destinataria delle più rudimentali
forme di welfare, prima ancora che questo concetto venisse definito. Da ciò,
oltre che dalle credenze religiose e morali, dipendeva anche la sanzione che
colpiva figure come quelle dell’orfano, del nato fuori dal matrimonio, della
ragazza madre ed in alcuni casi del celibe (gravato nell’Italia fascista da
un’apposita tassa): si trattava infatti di figure devianti rispetto allo schema
tradizionale, e come tali meritevoli di una minore protezione. Un caso a parte
era quello dell’omosessuale, concepito come un’offesa sotto il profilo
religioso e come un malato irrecuperabile e pericoloso sotto quello sociale.
Il mutamento di costumi cui alludevamo in apertura
deriva dal fatto che progressivamente la sanzione sociale nei confronti di
fenomeni come il divorzio, le seconde nozze e le unioni extramatrimoniali
venivano progressivamente meno, mentre si attenuava l’atteggiamento
discriminatorio nei confronti dell’omosessualità.
La questione di un riconoscimento delle unioni fra
persone dello stesso sesso se non della loro parificazione al matrimonio si
poneva in molti Paesi occidentali, e particolare attenzione riceveva
l’introduzione in Francia dei cosiddetti Patti Civili di solidarietà (PACS) da
parte del Governo socialista di Lionel Jospin nel 1999, che venivano visti come
il modello cui ispirarsi, nonostante le forti reazioni della Chiesa cattolica e
di altre confessioni religiose. Nel 2004 il premier socialista spagnolo Josè
Luis Rodriguez Zapatero andava anche oltre introducendo nella Nazione del Re
Cattolico il matrimonio paritario: peraltro, anche la Francia ha ammesso i
matrimoni fra persone dello stesso sesso nel 2013, come la Gran Bretagna e
molti altri Paesi del Nord Europa. Negli Stati Uniti, dopo che molti Parlamenti
statali avevano legiferato in tal senso sul loro territorio , il matrimonio
“paritario” è stato ammesso a livello federale a seguito di una sentenza della
Corte suprema nel giugno 2015.
In Italia la questione venne posta per la prima volta
in termini di iniziativa governativa nel gennaio del 2007, quando il secondo
Governo Prodi introduceva un DDL elaborato da Rosy Bindi e Barbara Pollastrini,
allora rispettivamente Ministre della Famiglia e delle Pari opportunità. Che
prevedeva un istituto definito come Diritti e doveri delle coppie conviventi
(Di.co.), nel quale in sostanza si dava un riconoscimento pubblico alle coppie
di fatto, sia etero che omosessuali, pur facendo di tutto per distanziarne il
contenuto da quello matrimoniale, a partire dalla registrazione che non avrebbe
dovuto avvenire in Comune ma in Tribunale. A molti esponenti del movimento gay
questo parve troppo poco, mentre al Vaticano e alla Conferenza episcopale parve
troppo, e mobilitarono contro il progetto di legge la grande manifestazione del
Family Day che, unitamente alla decisa avversità della destra (i cui leader
peraltro non erano certo modelli di vita familiare) e alle molte perplessità
della stessa maggioranza portarono all’affossamento del progetto.
Dopo di allora, la questione è stata sollevata a
livello giudiziario, quando la Corte costituzionale si è trovata a dover
discutere sull’applicabilità o meno della disciplina matrimoniale alle unioni
omosessuali, e ha risposto in sostanza che nella mens del costituente il
matrimonio poteva solo essere eterosessuale, ma ciò non escludeva, ed anzi imponeva,
che il Parlamento legiferasse sul fenomeno sociale di tali unioni, meritevoli
di tutela ai sensi dell’art.2 della Costituzione, che protegge anche le
“formazioni sociali” dove gli individui esprimono la propria personalità.
In questo senso, il DDL presentato dalla senatrice del
PD Monica Cirinnà all’inizio di questa legislatura si muove sullo stretto
crinale delineato dalla Consulta, pur riconducendo le unioni civili ad un
modello più avanzato rispetto a quello del 2007, e quindi con maggiori similitudini
con la disciplina matrimoniale.
Il resto è vicenda di questi giorni: è possibile a
questo punto ipotizzare che, una volta passate le forche caudine del Senato, il
DDL avrà una vita più facile alla Camera, dove i numeri della maggioranza sono
migliori. Certamente ciò si deve ad un clima sociale e politico cambiato, visto
che a priori ben pochi si sono detti contrari a normare le unioni civili,
sebbene nel dibattito al Senato non siano mancate espressioni grevi e volgari,
espressione di quella che non è nemmeno una posizione pregiudiziale di tipo
etico o religioso ma un’espressione culturale, una mentalità omofobica di fondo
radicata nel nostro Paese. Cambiato è anche l’atteggiamento ecclesiastico, non
nel senso che vi sia approvazione del fatto in sé delle unioni omosessuali, ma
sicuramente vi è la presa d’atto del fenomeno sociale, con la richiesta di
circoscriverlo al di fuori della disciplina matrimoniale, rendendo di fatto
marginale la presenza di minoranze rumorose come quelle che si sono radunate il
30 gennaio scorso per il secondo Family Day.
Il tempo dirà quale sarà stato il reale valore di
questa indubbia innovazione sociale.
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