20 dicembre 2019

Cronaca di un fallimento annunciato

Inutile girarci intorno: alla COP 25 di  Madrid si è consumato un fallimento. Che non è solo il mancato accordo sul double counting e sul loss and damage. Ma che è anche e soprattutto lo iato tra il livello di allarme indicato dalla comunità scientifica e l’allegra spensieratezza con cui risponde la gran parte dei governi di tutto il mondo procede, condita (e, dunque, permessa) dalla quasi indifferenza del mondo dei media.

di Pietro Greco - Micron

Inutile girarci intorno: a Madrid si è consumato un fallimento. Che non è solo il mancato accordo sul double counting e sul loss and damage. Ma che è anche e soprattutto lo iato tra il livello di allarme indicato dalla comunità scientifica e l’allegra spensieratezza con cui risponde la gran parte dei governi di tutto il mondo procede, condita (e, dunque, permessa) dalla quasi indifferenza del mondo dei media.
Stiamo parlando, è chiaro, di COP 25, la venticinquesima Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, che per due settimane si è inutilmente tenuta nella capitale spagnola.

L’avverbio – inutilmente – non è dettato dalla pancia del cronista che segue il circo dell’ecodiplomazia da più di trent’anni. È piuttosto la sintesi di un bilancio freddo e razionale, tanto amaro perché non prevenuto. Sappiamo infatti che non è facile mettere d’accordo i rappresentanti di quasi duecento paesi più l’Unione Europea, di cui diremo qualcosa (di positivo) di qui a poco. Ma è meglio che giudichi il lettore.

La COP 25 che doveva tenersi a Santiago del Cile ma è poi è stata spostata a Madrid per i noti fatti che hanno sconvolto il paese sudamericano non era programmata per fare la rivoluzione. Era una tappa di avvicinamento per COP 26 che si terrà a Glasgow esattamente tra un anno. Era stato deciso così alla COP 21 di Parigi del 2015. Chiediamo al lettore perdono: sappiamo che non è semplice navigare tra questi numeri e tra questi appuntamenti.

Ma cerchiamo di riassumere. A Parigi nel 2015 i rappresentanti dei suddetti governo diedero una chiara anche se insufficiente prova di consapevolezza: presero ufficialmente atto che il clima sta cambiando a causa delle attività umane e che bisogna cercare di contenere il conseguente aumento della temperatura entro i 2 °C e possibilmente entro gli 1,5 °C rispetto all’epoca preindustriale. Sotto la Torre Eiffel quei governi – guidati dall’inedito duopolio costituito da USA (di Obama) e Cina – si impegnarono sulla parola a ridurre le emissioni di gas serra.
Va detto che gli impegni presi erano insufficienti: ove anche fossero stati adottati, la temperatura media alla superficie della Terra sarebbe aumentata da qui a dine secolo di 3 °C rispetto all’epoca pre-industriale. Forse perché consapevoli di questo, i quasi duecento paesi si diedero appuntamento al 2020 e, dunque, a COP 26 per tirare un bilancio ed eventualmente correggere le cose che non vanno.

Dunque a Parigi COP 22, COP 23, COP 24 e COP 25 erano state programmate come semplici tappe di avvicinamento, dove mettere a punto questioni secondarie, come evitate il double counting e implementare un serio loss and damage. Il primo è uno strumento tecnico di ragioneria delle politiche climatiche: si tratta di stabilire come evitare che se l’Italia compra un diritto a inquinare in Etiopia piantando alberi in aree che ne sono prive, l’assorbimento di anidride carbonica non sia contata due volte: sia nel bilancio delle emissioni dell’Italia sia in quello dell’Etiopia. Il loss and damage riguarda invece i meccanismi finanziari di compensazione dei paesi più poveri ed esposti agli effetti dei cambiamenti del clima.
Due questioni importanti, certo. Ma che non scaldano il cuore. E che non incidono in maniera strutturale sul problema mitigation, ovvero sulla prevenzione dei cambiamenti climatici accelerati dall’uomo.

Il tranquillo tran-tran deciso a Parigi con le tappe di avvicinamento delle successive COP era già alquanto soporifero in partenza. Come se i governi non avessero una chiara percezione del rischio dei cambiamenti climatici previsti. Ma è diventato insostenibile – in qualche modo, insano – dopo che esattamente un anno fa la comunità scientifica, per bocca dell’IPCC (l’Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite), ha messo sul tavolo gli ultimi scenari e ha chiesto un’immediata accelerazione: dobbiamo necessariamente contenere l’aumento della temperatura media entro gli 1,5 °C e, per farlo, abbiamo tempo solo fino al 2030: dopo sarà troppo tardi.

A questo punto i governi avrebbero dovuto modificare il calendario deciso a Parigi e accelerare di conseguenza. Non lo hanno fatto a caldo a COP 24 a Katowice lo scorso anno ed è stata loro concessa un’attenuante: l’avviso dell’IPCC era troppo recente per far virare di 180°C una superpetroliera (è il caso di dirlo) qual è la politica globale. Ma ora è passato un anno e il timone non si è mosso neppure di mezzo grado. Anzi il mondo ha inserito la retromarcia.
Gli Stati Uniti (di Trump) si sono ritirati dagli accordi di Parigi, trascinandosi dietro il Brasile piuttosto che l’Australia e rinvigorito l’ostracismo di paesi produttori di petrolio come l’Arabia Saudita.

Era ingenuo – dicono coloro che conoscono la politica – aspettarsi altro che lo stallo da Madrid e da COP 25. Un cinismo dietro cui si cela una visione inquietante delle istituzioni politiche, ritenute strutturalmente incapace di confrontarsi con la realtà e, in particolare, con i rapidi mutamenti della realtà. Ma l’analisi degli scettici si è rivelata esatta. Madrid non ha risposto all’allarme suonato dall’IPCC lo scorso anno e più volte ribadito e persino accentuato dall’intera comunità scientifica in questi ultimi dodici mesi.
Di più. Madrid non ha reagito neanche difronte a quell’inedia mobilitazione di milioni di giovani (e di non giovani) in tutto il mondo innescata da Greta Thunberg. Una mobilitazione che ha trovato una convergenza, ancora una volta inedita con la Chiesa di Francesco e della sua Laudato si’. In realtà sulla stessa lunghezza d’onda vi sono altri movimenti religiosi, oltre quello cattolico.

Ma evidentemente i governi non hanno sentito abbastanza forte questo pur vigoroso fiato sul collo. Tranne, forse, l’Unione Europea con la sua nuova Commissione guidata da Ursula van der Leyen. E sì, Bruxelles (con l’unica opposizione seria della Polonia) si è impegnata ad abbattere del 50 e possibilmente del 55% le proprie emissioni di gas serra fino a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Alcuni dicono che anche questa azione europea non è sufficiente. Ma certo non è poca cosa e, comunque, è la più avanzata tra quelle in campo.

E allora ecco la strada indicata per non perdere l’ottimismo – non ce lo possiamo permettere – e giungere a Glasgow il prossimo anno con una proposta forte e concreta. Che l’Unione Europea vinca ogni timidezza e assuma la guida del convoglio mondiale, facendo leva sui giovani del movimento del Friday for Future e con tutti le istituzioni, come la Chiesa di Francesco, sono seriamente preoccupate del futuro climatico del pianeta.

Questa intesa deve riuscire a scuotere per primo il sistema dei media. Se i mezzi di comunicazione di massa smetteranno di inseguire l’ultimo tweet di Trump o l’ultimo starnuto del politico italiano di turno e daranno lo spazio che merita alla questione climatica, a Glasgow forse sarà possibile ruotare rapidamente il timone e invertire, all’ultimo momento utile, la rotta.  Non sarà facile. Ma occorre tentarci. Non abbiamo una seconda opzione.

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